Chiedersi perché corriamo è la domanda a cui tutti i runner prima o poi si trovano a dover far fronte.
Chiedersi perché corriamo quando suona la sveglia ed è ancora notte, piove e non si vede nemmeno il cielo. Le mie ossa immaginano l’umidità che dovranno sopportare.
La mia testa, stancamente, chiede perché bisogna uscire di casa. Lo chiede stancamente perché già lo sa che non ci sarà una vera risposta. O meglio: la risposta sarà simile a quella che danno i genitori distratti ai figli piccoli quando fanno una domanda sciocca: «perché bisogna uscire? perché sì». Magari poi smette di piovere, mi dico. Ma non ha importanza. Sono quarant’anni che corro con la pioggia e non mi sono mai preso un raffreddore.
Chiedersi perché corriamo quando andavo forte.
ma adesso non vado più forte; lo facevo quando gareggiavo, ma oggi non ci sono gare; quando ero giovane e avevo belle speranze, ma non sono più giovane e le speranze chissà se le trovo ancora. Trovo aria fredda e pioggia sul viso. Lo specchio nero delle strade deserte. Inizio ad ascoltare la fatica: è la stessa di sempre, di quando andavo forte, facevo le gare, ero giovane ed avevo belle speranze. È un filo che mi attraversa, che mi unisce al tempo passato e si prolunga nel futuro. Ma poi penso: il passato e il futuro non sono reali. Solo il presente esiste. Il presente è la fatica che ho scelto.
Chiedersi perché corriamo è un percorso che faccio almeno una volta alla settimana.
Ci sono quattro belle salite e oggi la terza mi chiede molto. Penso: sono proprio fuori forma. La aggredisco lo stesso. Non ho nemmeno l’orologio al polso, ma ormai so valutare il ritmo della corsa. Finalmente le gambe spingono, anche se mi chiedo quanto possa durare. Dura abbastanza. Sosta programmata alla fontanella del Giardino degli Aranci: la città che si sveglia è ai miei piedi. I miei piedi hanno conquistato la città che si sveglia. È una risposta? In questo momento mi sento talmente bene che posso illudermi lo sia. In realtà non è così semplice.
Sotto la doccia bollente mi chiedo di nuovo perché. E mi dico: perché dopo tanti anni non so immaginare una vita diversa, senza la dose quotidiana di fatica. Non è una bella cosa. Cerco una ragione migliore: l’unica che trovo è dantesca – “seguir virtute e canoscenza”. Ogni allenamento è fonte di conoscenza. Ogni allenamento mi rivela cosa sono oggi: la forza fisica che mi resta, la determinazione, la voglia di lottare con la sofferenza. E la canoscenza di sé è condizione necessaria per continuare a vivere secondo virtute – anche se non si va più tanto forte, non si è più giovani e le speranze chissà dove sono finite. Conoscenza incisa dalla fatica nell’attimo che sta passando.
Gastone Breccia