Odio uscire con il cielo livido di nuvole, devo correre 20 km a ritmo maratona. Spero di chiudere prima del temporale, ma nutro poche speranze, il meteo ieri è stato implacabile:
…”pioggia a carattere temporalesco su tutto il centro Italia, allertata la protezione civile”.
Andare a correre la Maratona di Boston mi entusiasma e mi spaventa. Aver chiuso 3° assoluto a Chicago con il miglior personale di sempre è un limite, cos’altro potrò fare ad aprile? Scendere sotto il muro dei 135 minuti mi sembra impossibile.
Mi vesto leggero, maglia blu, la mia preferita, pantalone lungo, scarpe nuove dello sponsor di turno, 12 gradi , troppi per essere le 6.00 di mattina.
Passaggio dei 15 km, ritmo gara, 3’12’’ a km, sento l’acqua che inizia ad avvolgermi, diluvia, maledette previsioni. Il mio tempo interiore a quest’andatura, mi scorre accanto, lo vedo, lo rallento.
Correre così veloce è un piacere, sto bene, anche se sotto peso, è la testa che a volte mi abbandona, siamo distanti, la mia vita è in un continuo stand-by, la definirei neutrale, mi ci muovo dentro a sua insaputa. Dovrò capire fino a che punto si potrà vivere così.
Il bip del cardio mi avvisa che sono sull’ultima salita e in affanno.
Le scarpe bagnate, i piedi freddi, passo davanti ai cantieri dell’alta velocità, stanno interrando dei cavi, la pioggia è fitta, non vedo più l’orizzonte.
Ecco che un tuono spegne tutto, anche l’ultimo metro di visibilità scompare, simultaneamente il fulmine scarica a terra un energia mai sentita.
Il cielo s’illumina, una luce bianca mi acceca per un tempo indecifrabile, un flash dentro e fuori di me.
Sono fermo sul ciglio della strada solo e spaventato, sento freddo e sono stanco, smarrito da tanta forza. Il cardio tace. Provo a reagire: frames isolati in uno spazio illimitato, preso e messo lì per caso, lento, quasi immobile, il mio tempo non è più vicino a me, mi ha lasciato, chissà dove.
Parole scomposte mi frullano in testa …”Allertata la protezione civile…” ma cosa potrà fare quando diventa notte e giorno in un secondo, quando il mio di tempo si è arrestato.
Mi guardo intorno cerco di reagire, poche macchine in lontananza, la pioggia si è placata, riprendo la corsa.
Riavvio il gps, sono sopra il mio passo, 3’20’, 3’50’’, 4’00’’ non va bene, ma di più non posso. Spingo sulle gambe ma rallento, ho un elastico che tira da dietro, mi sembra di avere corso mille chilometri. Cosa mi prende?
Ultimi 4 chilometri, il viale che mi riporta verso casa è vuoto, a terra ci sono 3 binari mai visti prima.
Il giro è finito, mi guardo intorno e inizio a sentirmi fuori posto, distante, le auto ferme, poche a dire il vero, sono nuove, modelli mai visti, l’asfalto è rifatto da poco.
Il portone di casa è aperto, come sempre, 5 piani a piedi, mi allungo ma le gambe sono due macigni, salgo piano, continuo a guardarmi intorno spaesato.
Davanti alla porta di casa un nodo in gola inizia a stringere forte, stremato con la sola voglia di mettere qualcosa nella pancia e fare una doccia calda.
Le piante sul piano sono diverse, i colori dell’ambiente sbiaditi.
Suono il campanello aspetto, più del solito. Una voce mai sentita prima, non la conosco, ma la porta e tutto il resto sono come prima, o quasi come solo un’ora fa.
Intimorito rispondo, rumori di chiavi che girano nella serratura. Il respiro è affannato, non sento più i piedi bagnati, non sento più niente.
Ho paura.
Davanti a me appare un ragazzo, sui 20 anni, capelli biondi, alto muscoloso, ben vestito. Resto in silenzio, l’ansia ormai prende il sopravvento, allungo lo sguardo oltre l’uscio, un posto familiare ma non come lo ricordo.
Sento passi che si avvicinano, voci di donne, lungo il corridoio, sto per cedere, elaboro, provo a reagire ma tutto si fa più chiaro, abbagliante.
Da dietro la porta vedo una donna, avrà più di 60 anni, la riconosco è mia moglie, ha l’espressione stanca, mi scruta con occhi vitrei e impassibili di colpo trasformano il viso in una maschera di terrore, non si muove, esita ma poi pronuncia una frase che mi toglie ogni speranza…
”ma sei vivo”…