Su storiecorrenti si parla spesso del rapporto genitori/figli/corsa. Un tema che conosco bene, perché ormai da anni corro con mia figlia, sposando il mood #DiPadreInFiglia.
Un’avventura iniziata quasi per caso, ma diventata una tradizione, un rituale, il nostro spazio condiviso fatto di chilometri, fatica e risate.
All’inizio ero il suo pacer ufficiale, il suo metronomo umano. Qualunque fosse la distanza – 5K, 10K, 21K, 42K – il mio ruolo era chiaro: aiutarla a gestire il passo, a dosare le energie, a superare i momenti di crisi. Abbiamo corso fianco a fianco in Italia e all’estero: la 21K di Valencia, la 21K di Berlino, la 42K di Chicago. Ora, all’orizzonte, c’è la 42K di Londra 2025.
La felicità più grande? Aver trovato un nostro angolo di condivisione in un contesto che, per lei, non è sempre stato semplice. Perché diciamolo: il mondo della corsa su strada è popolato in gran parte da runner over 40, esperti, rodati, con chilometri e chilometri nelle gambe e una mentalità temprata da anni di allenamenti. Un ambiente in cui un giovane si sente spesso fuori posto.
E non è un caso. La fatica non è esattamente la passione delle nuove generazioni. Sudare? Faticare? Ma siamo matti? Meglio la comodità del divano, il richiamo irresistibile della PlayStation, la gratificazione immediata di un videogioco che ti permette di vincere senza bisogno di allenamenti massacranti.
“Martina, la corsa è come un videogioco”, le dicevo ogni volta che faticava a trovare la motivazione. “Ci sono i livelli (le distanze), i boss di fine livello (i crampi), le missioni secondarie (i lunghi della domenica), i power-up (i gel energetici), e la modalità hardcore… che sarebbe la maratona”. Lei sbuffava, alzava gli occhi al cielo, ma intanto correva.
E poi, all’improvviso, la svolta. L’ultimo anno ha portato un cambiamento importante: il senso di appartenenza ad una squadra. Quel branco di pazzi che ha trasformato la corsa da sfida individuale a esperienza collettiva. Il senso di appartenenza, il sostegno reciproco, le battute pre-gara e i festeggiamenti post-gara. E mentre lei cresceva in consapevolezza e sicurezza, io mi ritrovavo sempre più spesso… dietro.
Il pacer è diventato “scopa”. Da metronomo a raccoglitore di pezzi nei momenti di crisi (i suoi e i miei). E quando la riprendo in gara, nei momenti in cui cala il ritmo o si fa prendere dalla fatica, non sempre apprezza i miei suggerimenti. Anzi. “Papà, stai zitto!” è diventato il nuovo mantra. Un classico. Un padre è sempre utile, certo… ma un padre che ti dà indicazioni mentre sei stanca e arrabbiata? No, quello proprio no.
La 28K della Maga Circe ha chiuso il cerchio. Il suo primo podio importante, conquistato grazie all’aiuto di un’altra “scopa” di lungo corso, Marco Raffaelli, che l’ha spronata nel momento più duro.
Un simbolo perfetto di ciò che spero per il futuro della corsa: non solo campioni, non solo fenomeni, ma giovani che trovino in questo sport un senso di appartenenza, un modo per mettersi alla prova, un’esperienza di inclusione e benessere psico-fisico.
Perché la corsa, al di là della fatica, insegna molto più di quello che sembra. Insegna che con costanza e determinazione si possono superare ostacoli che sembravano insormontabili. Insegna che il corpo e la mente possono adattarsi a qualsiasi sfida, se solo si dà loro il tempo di farlo. Insegna che lo sport non è solo prestazione, ma condivisione, legami, emozioni.
E alla fine, arriva sempre il momento in cui i figli smettono di seguire e iniziano a guidare.
Di ritorno in macchina:
M: Papà?
T: Dimmi.
M: Che dici, faccio la Maratona di Roma come preparazione per Londra?
T: Benvenuta nel club dei matti che preparano una maratona… con un’altra maratona (e meno male che dopo la prima aveva detto “mai più”…).
E io? Io starò lì, dietro di lei. Forse pacer, forse scopa, forse solo spettatore di un percorso che ormai è sempre più suo.
Tommaso Empler
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P.S. Il contenuto è stato ovviamente sottoposto a ferrea censura. Da chi? Che domande, da lei.