Un dolce correre, in un dolce ricordare

runner di gruppo

Non c’è un momento nel quale Pietro non sia impegnato a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Pietro ha conoscenza dei suoi limiti, ma non sopporta stare fermo con le mani in mano.

Ora è arrivato ad una tappa fondamentale della sua vita, sta per compiere cinquant’anni.

Raggiunto questo simbolico, ma significativo traguardo, Pietro sente arrivare l’urgenza di prendere una decisione.

Da adesso in poi il suo tempo, forse i prossimi cinquanta anni, è un inguaribile ottimista, lo avrebbe vissuto perseguendo un scopo preciso, meno schizofrenici obiettivi sconclusionati, ma energie canalizzate verso un solo traguardo da raggiungere.

In un momento di pausa, prendendo un bicchiere di vino rosso, ripensa a lui bambino e alla sua passione per l’atletica.

Il “Pietromovie” racconta di un bambino che rincorre il sogno di diventare un grande atleta.

Negli anni settanta non c’erano molte persone che tranquillamente facevano running nelle ville comunali o addirittura per la strada.

L’atletica era ancora uno sport da svolgere dentro le piste e le maratone erano veramente pane per pochissimi atleti professionisti.

Pietro andava nei parchi cittadini con un equipaggiamento rimediato alla bene e meglio senza troppe velleità, nei pomeriggi dopo la scuola, andava nei giardini pubblici a muovere i suoi primi approcci con la madre di tutte le discipline sportive.

Si divertiva, anche sfidando gli sguardi attoniti ed anche ironici dei passanti.

Spesso correva con una tuta un po’ strappata, delle scarpe non adatte, ma con il cuore compensava gli accessori che non lo aiutavano.

La passione, ancora in una forma rozza, si era impadronita di lui.

La scuola gli dava un’occasione in più, per rafforzare la smania di correre, perché una volta a settimana i ragazzi delle medie svolgevano l’attività ginnica nei centri sportivi dedicati alle discipline opzionate dagli scolari.

Pietro una volta a settimana andava allo Stadio dei Marmi.

Un ragazzo, un mucchio di fragili ossa e muscoli accennati, dodici anni, si era catapultato in quello stadio ricolmo di memoria, si trovava abbracciato, e forse un po’ soffocato, da decine di imponenti statue raffiguranti atleti, di un tempo lontano, che con la loro possanza dall’alto lo guardavano.

Stava viaggiando sulle montagne russe emozionali.

Si sentiva schiacciato da tutta quella storia sportiva che gli si stringeva addosso, respirava a fatica sentendo il cuore accelerare, ma dall’emozione, aveva le farfalle nello stomaco, era in fibrillazione, tanto era desideroso di correre in quello stadio.

Pietro era talmente portato via dai suoi flussi emozionali che non si accorse che si stava avvicinando qualcuno.

Era un uomo vestito con una tuta, alto, magro, con una massa imponente di capelli, una barba folta ed un paio di baffi importanti.

Se non fosse stato per l’abbigliamento sportivo, poteva sembrare un’artista, un pittore appena uscito dal suo studio bohémien.

“Ciao, io mi chiamo Giuseppe, come ti chiami?”.

“Pietro” gli rispose, quasi balbettando e incurvando le spalle come in un gesto di protezione.

“Sei venuto fin qui per divertirti? oppure vuoi solo fare un giro da turista tra le statue dello stadio?”.

Pietro rimase sorpreso da quell’approccio, lui era andato con l’intento di correre, di battere i suoi inquieti piedi su quella pista, in terra rossa, divisa in corsie bianche, ma quella domanda gli aveva installato un dubbio, fino a credere, per un momento, che forse non possedeva un fisico atletico, eh allora?,

Perché si trovava in quel luogo? Non aveva forse più chiaro quello che voleva fare?

Pietro in quei pochi secondi cercò di mettere a fuoco quell’uomo, c’era qualcosa di lui che lo rendeva conosciuto.

Poi prima che si dicessero ancora qualcosa a Pietro venne a capo di quella domanda.

“Ma Lei è Giuseppe “Pippo” Dandolo”.

“Giusto, hai solo sbagliato a darmi del lei, tra atleti, il lei non esiste”.

E Pietro venne magicamente riossigenato, lui che tra emozione e dubbi si era subito cacciato in un angolino della sua personalità, era bastata quella rassicurazione e via già si sentiva un atleta.

Giuseppe Dandolo era stato un atleta di caratura internazionale, uno di quegli atleti che aveva vissuto le competizioni più grandi fino ai Giochi Olimpici, non vissuti da spettatore, ma da attore principale.

Che ci stava a fare lì un’atleta di quella caratura?

Non era lì per un caso, aveva un compito ben preciso da svolgere.

La Federazione italiana di atletica leggera destinava i suoi atleti migliori, che avevano smesso l’attività agonistica, ad allenare i ragazzi che si sarebbero dedicati alla “Regina degli sport”.

Pietro lo conosceva bene, tante volte aveva visto le gare di Pippo, aveva fatto il tifo da una tribuna o davanti allo schermo televisivo, immaginare, solo per un momento al caso che potesse diventare il suo allenatore lo fece impazzire di gioia, ma anche tremare da capo a piedi, stava realizzando il suo sogno, quello che ad occhi aperti aveva fatto fino al giorno prima, dove era stato solo spettatore, ora poteva realizzarsi.

I ragazzi, attaccati alle pareti delle loro camerette, avevano i posters dei miti del cinema, della musica, dello sport.

Pietro non si esimeva da questa pratica, in uno dei suoi posters era raffigurato Giuseppe, immortalato mentre effettuava una gara, semplicemente fantastico.

Volate con la fantasia, immaginate un ragazzo che strimpella la chitarra guardando il poster, nella propria cameretta, dei Beatles, ed un bel giorno ha l’opportunità di suonare con i Fab Four, pazzesco

In uno stato di semi-incoscienza, Pietro, seguì Pippo verso l’ufficio di segreteria per svolgere le pratiche di registrazione per incominciare, dalla settimana successiva, gli allenamenti.

Quando gli chiesero se volesse essere seguito dal suo idolo nel corso, il ragazzo ebbe una specie di paralisi, nella sua mente aveva già risposto mille volte di sì, ma non riusciva ad emettere un suono, apriva la bocca, ma come un pesce, non parlava, girava in modo frenetico solo gli occhi.

Giuseppe Dandolo lo aiutò, traducendo da quel movimento di occhi spiritati, quello che Pietro voleva dire, anzi urlare.

“Va bene Pietro ci vediamo la prossima settimana, mi raccomando porta scarpe adatte per la corsa, maglietta e calzoncini, e tanta buona volontà, al resto ci penso io”.

Balbettando qualcosa, con le mani sudaticce, ed il cuore che non aveva smesso di battere freneticamente si congedò dal suo allenatore e prese la strada di casa con il desiderio che il tempo che mancava al suo primo allenamento fosse frantumato in pochi istanti.

I giorni che lo separavano dalla sua prima sessione di allenamento non passarono veloci perché comunque la quotidianità con i suoi compiti da svolgere: dalla scuola, soprattutto, agli aiuti da fornire in casa, tutto gli pesava, non perché fossero particolarmente gravosi, ma lo distraevano dai suoi sogni di atleta e questo non gli piaceva.

Cercava di coinvolgere chi aveva intorno con la sua felicità, ma dai professori, ai suoi genitori fino agli amici nessuno gli dava un’adeguata sponda, e questo lo irritava assai.

Più il racconto, per lui straordinario, portava a conoscenza di tutti, più il disinteresse di chi lo circondava gli regalava non rabbia, ma una strana forza.

L’atletica l’aveva scelta grazie, complici uno stadio ricco di storia ed un atleta dai tratti romanzati gli avevano dato la conferma che aveva fatto la scelta giusto.

Non ci sarebbe nessuno, ma proprio nessuno che poteva farlo tornare indietro.

Per lui c’era solo l’atletica, erano solo tre ore, solo un giorno a settimana, ma era un faro che lo avrebbe guidato nella sua navigazione esistenziale.

Il primo allenamento, Pietro dopo tanti anni, lo rivive ancora.

Arrivato puntuale al campo, lo guardò riempirsi di ragazzi e allenatori.

Dandolo da lontano gli urlò: “Cambiati subito, cinque minuti, poi qui insieme agli altri”.

Mentre nello spogliatoio si cambiava, un pensiero appesantiva il suo entusiasmo.

“Ma Pippo perché mi si è rivolto con questa durezza?” Non lo capiva.

Appena arrivato di fronte al suo allenatore, Pippo lo esaminò da capo ai piedi e gli disse:

“Finito l’allenamento parliamo del tuo abbigliamento, da migliorare, ora ci si allena”.

Furono tre ore di fatica e sudore, con pochissimi ristori, giusto quelli necessari.

Alle richieste di ammorbidire la durezza degli allenamenti da parte di Pietro, Pippo risponde in maniera calma, ma decisa: “I metodi di allenamento sono il mio pane quotidiano, se vuoi assaggiarlo sei invitato, altrimenti io non lo cambio, sono gli altri, se vogliono, che possono cambiare l’allenatore”.

Ancora più stralunato Pietro incassa anche questa frase insieme alla fatica raccolta in pista e prova a rimettere tutto insieme sotto la doccia.

Mentre con la sua borsa stava tornando verso casa, prima di prendere l’autobus gli si avvicinò Pippo Dandolo.

“Ho fatto qualcosa?” chiese Pietro, Pippo lo rassicurò “Niente di cui ti debba dispiacere, volevo solo dirti che quando io alleno non conosco, parenti o amici, ma fuori dalla sessione di allenamento, tutto torna come prima”.

Pietro nella stessa giornata aveva imparato di atletica e di vita.

Non lo sapeva, ma quegli incontri al foro non li avrebbe passati solo ad allenare il suo gracile corpo, ma piano piano capirà che gli si svilupperà anche la sua mente.

Di aneddoti in quelle lontane sedute di allenamento se ne ricorda alcuni, purtroppo, con il tempo molti sono andati perduti.

Uno però, nonostante il tempo passato, se lo ricorda preciso, come fosse successo solo il giorno prima.

Era un giorno freddo, piovoso, di quelli che uno non si alzerebbe dal letto per tutto l’oro del mondo, era invece, insieme agli altri ragazzi, a sgambare tra i prati infangati della Farnesina, poi, dopo un piccolo riposo, si era sdraiato sull’erba bagnata dello Stadio dei marmi a fare attività di piegamenti e ripartenze, per finire con scatti brevi, veloci sulla pista.

In quelle tre ore aveva svolto tutte le indicazioni di Dandolo, ma spesso le accompagnava con sbuffi e qualche parola di dissenso e di palese stanchezza.

Dandolo non aveva mai commentato le lagnanze di Pietro, si limitava solo a passargli le note tecniche.

Alla fine dell’allenamento, con Pietro sdraiato sotto la pioggia, Dandolo salutò tutti con dando l’appuntamento alla settimana successiva.

Mentre Pietro si rialza stancamente andando verso gli spogliatoi, Dandolo gli fa: “Pietro tu resti ancora qua”, “Perché?”.

“Perché prima di farti la doccia ti faccio svolgere l’allenamento per il quale è giusto che ti lamenti”.

Porta il ragazzo ai piedi delle tribune che cingono lo Stadio dei marmi.

Il ragazzo in attesa di quello che dovrà fare guarda quella scalinata bianca, imponente, che si stagliava dalla pista rossa fino a raggiungere i piedistalli delle statue, bellissima.

Ancora in sovrappensiero il ragazzo ascolta l’allenatore: “Ora Pietro a piedi uniti salta i gradoni, ad uno ad uno, poi quando sei su in cima ridiscendi normalmente e di nuovo ripeti la scalata. Compi l’esercizio per dieci volte e buon lavoro”.

Pietro rimane attonito, come se quel comando, quasi non lo riguardasse, rimase qualche secondo pensando che si rivolgesse a qualcun altro.

“Pietro non abbiamo tutta la notte, vai, muoviti!”

Riguardava proprio lui, tra l’incazzato e il rassegnato raccolse le forze ed iniziò l’allenamento punitivo.

La prima serie andò discretamente, ma era conscio che il peggio dovevo arrivare.

Scendendo nella prima tornata, il “dai,dai,dai” di Pippo, gli faceva capire che non bastava farlo, ma doveva svolgere al meglio possibile.

Tra la sesta e la settima tornata, i bollenti spiriti li aveva spenti, non ce la faceva ad arrabbiarsi, voleva solo uscirne, possibilmente da vivo, sentiva le grida secche dell’allenatore, aveva i quadricipiti in fiamme, ogni appoggio era una coordinazione fragile, sul marmo bagnato, ma le imprecazioni provava a mutarle in energia.

Arrivò all’ultima serie, la decima, forse all’ennesimo gradone saltato, nel subconscio gli sarà passata l’idea di mollare l’atletica, Pippo Dandolo, lo Stadio dei marmi e tutto lo sport.

Ma era un sotto pensiero che stava alimentandosi nello sforzo e nel dolore, non era razionale.

Arrivato in cima per l’ultima volta, cominciò lentamente a scendere, era instabile, si teneva con lo sputo, ma dal viso in giù non voleva dare soddisfazione al suo aguzzino-allenatore.

Appena sceso giù in pista, ricevette “Bravo, buon allenamento, vatti a cambiare”.

Pietro rimase negli spogliatoi tantissimo, al punto che fu ridestato dal custode dell’impianto, perché doveva chiudere.

Non si sentiva più niente del suo corpo, gli faceva talmente male tutto, che non sapeva cosa gli fosse rimasto sano, forse nulla.

Tornò a casa e accettò, complice l’allenamento supplementare, la sgridata dei suoi genitori per il ritardo colossale accumulato.

Indimenticabile quella notte, per l’adrenalina generata dall’allenamento, dall’arrabbiatura, dai rimproveri, insomma praticamente passò la notte con gli occhi aperti, niente sonno, ma tanti pensieri.

Tra i mille pensieri che gli fecero compagnia quella notte, una considerazione, aveva capito che il suo allenatore con i suoi allenamenti, i suoi rimproveri, i suoi consigli lo stava preparando sia come possibile atleta, ma molto di più come futuro uomo

La mattina fisicamente stava peggio del giorno prima, sembrava che tutti gli acciacchi di una vita ce li avesse avuto quella mattina e tutti insieme.

Intuì che non avesse una buona cera da come lo guardavano in casa, si muoveva come un autonoma, al punto che il padre gli domandò “Se non te la senti puoi anche non andare a scuola”.

Per avere quell’atto di pietismo voleva proprio essere ridotto male.

Ringraziò, ma disse che sarebbe andato a scuola lo stesso.

Si avviò verso scuola, con la certezza che anche con tutte le fatiche e i traumi che l’atletica, ed i suoi allenatori, potevano inferirli, Pietro avrebbe corso, anche se non fosse riuscito ad essere un campione fino alla fine dei suoi giorni.

Gli anni in cui accarezzò la possibilità di diventare un atleta con la a maiuscola furono solo due.

Arrivò in modo subdolo una bronchite, prima sottovalutata, poi mal curata.

La difficoltà nella respirazione registrata successivamente per troppi mesi, allontanarono i possibili sogni di gloria per Pietro.

Quando finì i suoi pellegrinaggi al Foro Italico, finì anche di correre, l’amore era finito.

Dai giorni dove la corsa era imprescindibile, come l’ossigeno, come l’acqua, al non essere più niente, come un amore che lo aveva illuso e poi gettato via, dimenticato.

Pietro passa molto tempo, ma non se ne accorge, rivede e rivive il suo crescere, tra un allenamento ed un altro, ma come tutti i film, anche quelli più lunghi, finisce anche il suo.

Si accendono le luci nella sala, scorrono i titoli di coda, si stropiccia gli occhi, accorgendosi che sono umidi.

Il vino rosso nel bicchiere non c’è più.

Sente dei brividi intorno al corpo, non lo sa se sono provocati dalla sua posizione, rannicchiato per ore sulla sedia, quasi immobile, rabbrividendo, oppure quel che passava nella sua mente, quegli eventi, gli hanno regalato un fremito e forse non solo uno.

Allora cerca un aiuto, senza vederla, la bottiglia di vino, praticamente vuota, e fissando ancora i suoi ricordi, nella sua anima, si riempie ancora il bicchiere.

Il liquido che scende nelle sue viscere lo tranquillizza, lo riscalda, è come se lo prendesse per mano gli fa riprendere un sorta di nuovo cammino.

Quell’esperienza, così semplicemente magica, con il suo coach durò per poco tempo.

Troppo poco per tutto quello che poteva insegnargli, ma benedetti perché quei due anni nella sua vita sono esistiti.

Riassaporando quei momenti, ha capito che quel breve tempo, solo cronologico, aveva segnato profondamente il suo modo d’interpretare la sua esistenza.

In quei giorni molto lontani, con l’atletica leggera, con quel campione che gli aveva insegnato moltissimo.

Quella sera, Pietro, oltre a raggiungere numericamente un traguardo alla sua esistenza, capisce, guardando indietro, cosa potrebbe essere il suo futuro e diventare quel traguardo del mezzo secolo, una splendida partenza.

Pietro tornerà al Foro Italico, ci andrà vestendo una maglietta, un paio di calzoncini ed un paio di scarpe adatte, ricalpesterà quella pista che rossa non è più, e poi, se i polmoni e le vecchie articolazioni non lo tradiranno non ci andrà per un giorno solo.

Quel tempo non potrà tornare, nessun poeta, nessun artista, nessun mago ha il potere di far tornare indietro niente e nessuno.

Non lo si può fermare, non lo si può far tornare indietro per riviverlo.

Ma quella sera, scivolata dolcemente in una lunga notte, per merito, o forse colpa, di qualche immagine, Pietro si è sentito più fortunato di altri che il tempo lo hanno perduto e mai più ritrovato.

Le foto, la voglia di sentirsi ancora bambino, il vino rosso, chissà altro, chissà cosa hanno contribuito in poche ore a dargli un punto di svolta.

Pietro ha deciso, è deciso, è finalmente consapevole che il suo punto di svolta non potrà coincidere con la possibilità di avere una vita 2.0, no questo no.

Ma la sua schizofrenia, incontrollata, brava a non gestire nulla, il farsi coinvolgere nelle situazioni senza dettarle, tutto questo terminerà.

Come finirà tutto questo? tutto quello che era?

In modo semplice, andrà con continuità allo stadio e metterà tutta la volontà nel correre.

Tutto quel correre che prima era un movimento, incontrollato e incontrollabile, della mente e dell’anima irrequiete ed il fisico ne era solo il mezzo per esternare tutto questo.

Ora no, si schiererà sulla linea di partenza, idealmente aspetterà lo starter che chiamerà l'”Ai posti”, il  “pronti” e il “Bang” e finalmente correrà, suderà, si sfiancherà e raggiunto il suo traguardo, felice si fermerà.

Libero dalla preoccupazione di raggiungere il traguardo di una finale olimpica, libero di dover dimostrare perché il piacere di correre, libero da ogni dubbio, da ogni critica, libero e basta.

E mentre starà ai bordi della pista a recuperare un alito di fiato, se vedrà un bambino con lo sguardo affascinato da chi si agita tra quelle corsie e spaurito dalle grandi statue che lo circondano, gli si avvicinerà e gli domanderà “Ciao io sono Pietro e tu come ti chiami?” sperando di far sbocciare un amore sportivo, proverà a far fondere in un meraviglioso abbraccio il passato ed il futuro in un unico, bellissimo, presente.

Non lo può sapere se andando a correre gli capiterà di incontrare un bambino e trasmettergli quella passione che incendiò lui.

Ma lui vuole rimettersi in gioco, se potrà essere testimonianza per gli altri oppure continuazione in modo differente di come si era sognato da bambino solo il futuro gli potrà dare una risposta.

Cinquant’anni, un traguardo, un bilancio, ma anche una ripartenza e stilare un preventivo.

Pietro ora si mette a dormire, domani sa cosa dovrà fare.

Raffaele Ippolito