Speranza è l’ultima a morire

Speranza aveva sei figli. Quattro erano figli di suo marito che era vedovo e molto più grande di lei, ma non le importava. Non le è mai importato. Lei aveva sei figli.

Quando la guerra ebbe inizio aveva appena ventiquattro anni, e una famiglia da portare avanti.

Lei che una famiglia non l’aveva mai avuta ed era cresciuta sballottata da una casa ad un’altra, se ne trovava una prefabbricata sulle spalle mentre il mondo era occupato a contenere la furia nazista che imperversava in Europa.

Ogni dannata sera che Dio mandava su questa terra a rincorrere il giorno, suonava la sirena che dava l’allarme, ogni dannata sera bisognava affannarsi per sei chilometri con i bambini per mano e un materasso sulle spalle per non farli dormire in terra, cercando raggiungere la galleria della Vittoria nel cuore di Napoli.

La galleria era rivestita di piccolissime piastrelle bianche che lo smog non aveva ancora ricoperto con la sua coltre densa. L’automobile era un lusso per pochi e di inquinamento non se ne aveva ancora notizia.

I bagliori della notte le facevano risplendere di mille colori, mentre le bombe fischiavano e tuonavano forte, così forte che la più piccola dei suoi figli, Margherita, ancora oggi, alla veneranda età di 86 anni, ha il terrore dei temporali e quando sente un tuono impallidisce.

Era come un gioco per i bambini. Il gioco della sopravvivenza. Giocavano a trovare forme e immagini nelle crepe del pavimento, a battimuro, a fingere di essere altrove mentre le donne anziane mormoravano un rosario interminabile per tutta la notte.

La notte infinita durante la quale si aspettava un’alba che non arrivava mai. Il tempo era drammaticamente lento, in particolar modo il tempo che intercorreva tra il bagliore, il sibilo e il tonfo delle bombe.

La mattina in realtà non portava alcun conforto.

Speranza percorreva la strada a ritroso con i bambini stanchi dopo l’ennesima notte insonne e il suo materasso sulle spalle, pregando silenziosamente che la sua casa fosse ancora in piedi.

A mano a mano che i mesi passavano, la situazione andava peggiorando. La ritirata tedesca e le quattro giornate di Napoli sono nero su bianco in molti libri di storia, restare in città era impossibile e incredibilmente rischioso.

Il cibo non bastava più, la gente, provata da anni di soprusi, miseria e dolore, era avvilita ma non sconfitta. Fu così che uomini, donne e addirittura bambini decisero di armarsi e contrastare le forze tedesche.

Non era decisamente il momento di restare in città con sei ragazzini da crescere e proteggere e fu così che Speranza e i suoi figli salirono su un treno merci diretto in Romagna con il niente che avevano nelle tasche e nel cuore la volontà di sopravvivere a tutti i costi a quel paradosso di odio e dolore che sembrava non trovare una fine.

Il treno era lento. Talmente lento che proseguire a piedi sarebbe stato più rapido. Decine di persone erano ammassate in quel vagone.

Con poca acqua, poco cibo e nessuna possibilità di lavarsi, impiegarono ben due giorni ad arrivare a destinazione. La vita scorreva tranquilla, lontano dalla città, in un piccolo borgo della Romagna che era il paese di suo marito Savino.

I soldati tedeschi erano ovunque. Nei piccoli centri cercavano i partigiani che si nascondevano fuori dal paese, tra le colline. Erano inesorabili e spietati.

Il tempo era passato rapidamente e lei sembrava invecchiata di cento anni. I due ragazzi più grandi erano stati chiamati alle armi.

Luigi, il primo, era destinato alla Russia, la terra del non ritorno. Speranza partì come una furia con le valigie piene di maglie di lana, calzini e tutto quanto le fu possibile racimolare per riparare il suo ragazzo dal freddo e salutarlo prima della partenza.

Era il più grande dei figli di Savino, avevano pochi anni di differenza, ma era suo figlio, il più grande, il suo sostegno.

Bastarono pochi mesi per perderne le tracce, ma non bastò una vita per indurla a smettere di cercarlo. Lo ha cercato come solo una madre sa fare, fino al suo ultimo giorno, fino all’ultimo respiro.

Luigi giace insieme ad altre migliaia di ragazzi sotto la fredda terra di Russia, congelato a 18 anni. Fermo in un tempo senza tempo che gli ha tolto la possibilità di avere una vita, un lavoro, una famiglia.

È stato dichiarato morto ma nessuno ha mai saputo come e quando, ne tantomeno dove riposa, ne se sul suo corpo sono cresciuti mille girasoli gialli.

Alberto no. Non voleva fare la fine di suo fratello e si unì ai partigiani. Era poco più che un ragazzo. I soldati tedeschi lo sapevano, lo cercavano.

Quel giorno Speranza stava lavando i piatti. Un pugno deciso e violento picchiò forte e ripetutamente sulla porta, così forte che sembrava tirarla giù. Con il cuore in gola andò ad aprire.

La canna gelida della pistola le premeva forte la tempia. “Dov’è partigiano!” Sbraitò il soldato in uno stentato italiano con la sua divisa grigia come grigio era il colore di tutto quello che li circondava in quell’istante che pareva infinito.

Speranza finse di non capire, cercò di prendere tempo.

Quella pistola che continuava a premere sulla sua tempia le smorzò il respiro, non riusciva a parlare, era pietrificata.

Nella stanza accanto la piccola Margherita non si perse d’animo.

Per fortuna abitavano al piano terra e non fu difficile per lei sgattaiolare dalla finestra e correre a cercare aiuto. Fu la sorella di suo padre ad accorrere. Parlava tedesco e in quella lingua dura e gutturale gli spiegò che si sbagliava, che in quella casa non c’era nessun partigiano, ma solo quella donna e le sue bambine e aggiunse che sarebbe stata felice di invitarlo alla cantina a bere un bicchiere di vino per scusarsi del tempo che gli avevano fatto perdere. Il soldato si ubriacò e non tornò più.

Quel giorno un ragazzo fu salvato e una donna perse definitivamente il brandello di fiducia che aveva nel genere umano.

Speranza era mia nonna. Margherita è mia madre.

Queste sono le storie con cui sono cresciuta, questo è stato il modo che le donne della mia vita hanno utilizzato per spiegarmi che la guerra è male, che il cibo non si spreca perché potresti non averne a disposizione nel momento del bisogno, che la famiglia viene prima di ogni altro pensiero o affetto e che i vestiti, quando ti spogli la sera per andare a letto, vanno piegati e messi in modo che ti sia facile indossarli “perché non si sa mai”.

Speranza e Ludmilla
Nonna Speranza e Ludmilla
Ludmilla Sanfelice
Un giorno senza sorriso è un giorno perso. Non importa quanti pesi portiate sulle spalle, la vita è un battito di ciglia e va vissuta in ogni istante. Come l’ho scoperto? Allacciando le scarpe e cominciando a correre. Run Lud Run! Ogni giorno una nuova storia aspetta di essere raccontata.