SAN GIOVANNI LI CUTI – La semplicità sempreverde, semprevera

Delle grandi città, ricordiamo le piazze affollate, i viali alberati e trafficati, i più noti musei, i luoghi simbolo da cartolina riconosciuti in tutto il mondo, i parchi verdi e puliti che tanto desidereremmo avere sotto casa e che profumano di naturale vitalità.
Insomma, delle grandi città ci piacciono le forme che facciamo di tutto per immortalare nelle nostre fotografie.

Sono lusso di pochi, però, quei posticini nascosti, prerogativa dei curiosi avventurosi che amano guardare nelle crepe, nelle spaccature delle città, nei luoghi in cui non è possibile quadrare la caratterizzazione di un popolo all’interno delle forme convenzionali. Sono luoghi di periferia, talvolta di una periferia nascosta al centro, spudoratamente popolari, squisitamente semplici e umili. Sì, ma veri!
Ecco, è lì che a me piace guardare, nei piccoli borghetti segnati da qualche ruga che testimonia il passare del tempo, senza però intaccare il fascino secolare dell’autenticità e della veridicità di ciò che sono in grado di raccontare quelle case agglomerate come in un abbraccio che stringe la tradizione di quel luogo.

San Giovanni Li Cuti, ad esempio, è un minuscolo borgo al centro di Catania, accatastato su un porticciolo che ha tutta l’aria di essere stato, in passato, l’indiscusso protagonista della quotidianità di coloro che abitavano nei paraggi, estendendosi quel braccio grigio in maniera prepotente di fronte alla schiera di edifici malinconici e nostalgici, come a voler rimarcare una sorta di “divismo” fuori dal tempo.
Sarà per il rimando all’immagine dei pescatori, emblema del senso del sacrificio che si trasforma in sapienza nell’affrontare la vita con poco, senza troppe pretese… ma quel luogo restituisce un’atmosfera romantica, non nel senso di “sentimentale” o “emozionale”, ma vicina al popolo e lontana dalle costruzioni artificiali (quelle in mattoni e quelle delle finzioni in carne ed ossa!).

Allora, passeggiando per le poche centinaia di metri che tagliano il piccolo borgo, i pochi occhi privilegiati, allenati ad osservare gli spaccati di vita vera, non possono non rimanere piacevolmente sorpresi dalle scene che si svolgono nel porticciolo, tanto da cercare un angolino a sedere sul muretto della piazzetta antistante e godersi lo spettacolo.

A primo impatto, sembra che la zona sia colonizzata da gruppi di bambini e ragazzini che, senza troppa fatica, raggiungono il mare, evitando di affannarsi verso le spiagge più lontane.
Allora si assiste a vere e proprie batterie di tuffi, per i quali ciascuno aspetta il proprio turno in fila… ché poi l’attesa in fila diventa l’occupazione della giornata, poiché non appena si tocca l’acqua, si torna a rimettersi in coda per il tuffo successivo. E c’è chi si butta di testa, chi a candela, chi a bomba -soprattutto i più cicciottelli ed esuberanti che sfruttano la loro prestanza fisica per infastidire gli avversari timidi-. Notare che la professionalità è talmente alta che tutti sono dotati di scarpe da ginnastica, per potersi arrampicare più agevolmente nella risalita.

Poi ci sono gli “zavurdhi”, ovvero sia quelli che ostentano un fascino del tutto grezzo e privo di raffinatezza, testimoniato da movenze sgraziate finalizzate a mettere in risalto i muscoli scolpiti, i quali però rimangono ciascuno isolato nel suo metro quadro, per garantirsi tutte le prospettive da cui poter essere ammirati dai passanti.

E poi ci sono persone speciali.

Foto Giovanna Pappalardo

Come un uomo sulla settantina che si muove a fatica, probabilmente perché fa i conti con un corpo semiparalizzato, ma che con tanta tenacia e caparbietà, vuole guadagnarsi il suo bagno a mare.
Allora appoggiandosi al muretto della banchina, cammina fino a raggiungere l’estremità prossima al mare. Poggia il telo e la borsa e tira fuori la sua arma segreta… un paio di pinne! Le indossa lentamente come fossero un gioiello prezioso, si rimette in piedi e, sempre poggiandosi al muretto che via via si fa più basso, indietreggia scivolando con le pinne verso l’acqua. Con calma. Non curandosi degli sguardi dei bambini dietro di lui, con la complicità di una mamma che tenta di far aprire un varco tutto per lui tra i mocciosi che si tuffano.

E ad un tratto ecco che l’uomo raggiunge il mare e si lascia cadere indietro, come abbandonandosi fiduciosamente al potere rigenerante, conciliante e rivitalizzante del mare!
Ora è felice. Ora è sano. Ora è vivo.

Queste sono le scene per cui ricordo le città.
Cartoline non ne voglio più!

Cassandra Caradonna

Cassandra Caradonna