Una pausa pranzo vicino la scuola. Un kebab a febbraio benedetto dal sole. Locale piccolo e cibo buono, due tavoli. Io in uno, quattro ragazzi sui 14-15 anni all’altro. Sono molto medi: tute, brufoletti, zaini, odore di banchi e di mezzi pubblici. Non particolarmente brillanti, non particolarmente bestemmiatori.
Li osservo ordinare al bancone, tirare fuori i soldi per pagare, far la spola tra tavolo e bancone per aggiungere o togliere salse e ingredienti, interagire tra loro e con l’adulto che sta preparando loro il pranzo.
In questo momento stanno provando a fare una cosa “da grandi”, forse per la prima volta. Capiamoci: non sono in cattività, come a scuola.
Sì, la scuola è un luogo in cui l’interazione non è libera, c’è sempre una maschera da indossare, ruoli da recitare con i professori e con i compagni, sia quelli di classe che quelli delle altre, magari da incrociare a ricreazione, momento ideale per realizzare una “punta”, un incrocio di sguardi, uno scambio veloce di parole.
Ma nel microcosmo scuola le prove tecniche di identità giocano altre partite. I 4 a pranzo da soli mi hanno trasportato, per qualche minuto, nei loro cuori nuovi: li ho guardati mentre “provavano” azioni sempre portate avanti dai loro genitori o dagli adulti di riferimento e li ho visti alternare un proverbio, retaggio probabile di un lessico familiare, a slang ben codificati.
Li ho visti provare anche la gentilezza, super guardinghi ( un ragazzo non può mai essere troppo gentile ), in questa continua alternanza tra il mondo e le parole dei grandi ( ma sarà giusto? Che diranno di me i miei amici? Cosa potrebbero pensare i miei genitori? ) e le prove incessanti per trovare la chiave giusta. La chiave giusta dell’umorismo, della battuta, del movimento ( dove l’appoggio lo zaino? Come lo sto occupando lo spazio?), della relazione, appunto.
“Io tutto, tranne la cipolla”
“Guarda che la salsa piccante è piccante davvero, eh”
“A me piace tanto la salsa allo yogurt”
“Io ci metto dentro proprio tutto, abbondante!”
Lo spettacolo è qualcosa di commovente: li vedi come se stessero togliendo il cellophane dal loro modo di stare al mondo, come a dire: ecco, sono nuovo, potrei essere così e chissà se è giusto. Forse non c’è tutta questa consapevolezza ( lo spero, io non me la ricordo ) ma di certo traspare l’emozione di questo passaggio, molto più che al riparo della classe, con i suoi riti rassicuranti e il setting tramandato quasi geneticamente.
Creare familiarità con persone che non fanno parte del tuo passato significa proprio “provare” l’identità. A onde, a scossoni, a sconquassi. Silenziosi come gli sguardi ma che rumoreggiano come un urlo quando si sta per “diventare grandi”.
Non è uno scherzo trovare la giusta misura e sentirsi autentici tra passato e futuro.
Sono proprio sospesi, come a metà di un ponte tibetano. Proviamo a capirli senza accompagnarli troppo, facciamogli sentire che all’inizio del ponte c’è un porto sicuro ma che alla fine c’è la scoperta della propria identità da squadernare al mondo, da far svettare come una bandiera.
E che è normalissimo fare cinque passi indietro quando ne hanno fatti quattro avanti e che il ponte stesso può essere un momento felice. In cui tutto si muove, in cui nulla è fermo, in cui è fondamentale trovare gregari all’altezza del compito epico.
E allora attraversarlo, arrivare alla fine, può essere l’avventura più meravigliosa del nostro esistere, può porre le basi per cui, tra qualche anno, quel primo pranzo al kebab, tra le lezioni della mattina e il corso di recupero pomeridiano, se lo ricorderanno sempre con un sorriso che non si spegnerà.
Che porteranno sempre con loro anche quando il cellophane sarà disperso nell’ambiente, quando se lo scorderanno proprio di averlo avuto, un cellophane.