Mi chiamo Carlo, ho 55 anni, e mi rendo conto che più passa il tempo e più mi sento giovane.
Sarò matto? Forse, ma lasciatemi nel mio stato perché mi piace troppo.
Nel 2014 decisi di fare un viaggio che avrebbe scombussolato l’ordinarietà della mia vita.
Avevo in mente da tempo di creare un progetto per onorare la memoria dei miei genitori che tanti anni prima mi avevano adottato.
Non sapendo dove sbattere la testa, chiesi consiglio ad un prete, che mi invitò a visitare le missioni fondate dalla Congregazione cui apparteneva.
Mi disse “Vai, visita e poi decidi”.
Mi ritrovai nel mese di luglio in Mozambico, uno dei Paesi più poveri al mondo, che nemmeno sapevo in quale parte dell’Africa fosse.
Vi rimasi per quindici giorni e fu uno schiaffo.
Ritornai nella mia casetta a Cerveteri (Roma) con sentimenti che non avevo mai vissuto prima. In parole povere ero stato colpito dal mal d’Africa.
Ricordo che rimasi chiuso in casa per una settimana per non comunicare con nessuno, fissando uno ad uno i momenti vissuti in quella breve esperienza di missione e ritenendomi letteralmente inutile, inadeguato.
Mi chiedevo il perché della gioia in volti di bambini e adulti che non avevano nemmeno un soldo per mettere su un pasto al giorno, e di me, semi triste nella mia quotidianità di una vita piuttosto tranquilla.
Una freccia al cuore mi aveva colpito e volli ripetere l’esperienza l’anno successivo per un periodo più lungo di un mese.
Il Progetto dedicato ai miei genitori era già nato, ma qualcosa mi chiamava a mettermi in gioco personalmente, a non lasciare solo qualche bene in favore dei più bisognosi.
E via, vinsi ancora una volta il mio terrore di volare e dopo un altro viaggio di circa 24 ore, passando per il Qatar e prendendo due aerei, mi ritrovai di nuovo nel mio Mozambico.
Niente, pensavo mi passasse, ma il mal d’Africa si affacciò nella mia vita ancor più prepotente e lì cominciai a chiedermi, da cristiano non molto praticante, se Dio mi stesse chiamando per una vita differente.
Fin da bambino avevo avuto due passioni, l’Africa e i poveri, ma le circostanze della vita mi avevano portato a preoccuparmi di altre questioni che l’hanno comunque arricchita anche se non in maniera soddisfacente.
Pronto, decisi di fare il salto sulla soglia dei 48 anni.
Chiesi un periodo di riflessione alla mia impresa, dove lavoravo come agente di commercio da più di venti anni, e mi furono concessi 7 mesi che passai nuovamente in Mozambico nella missione della Congregazione.
Arrivò il tempo delle scelte, lascio tutto o rimango in Italia. Mi risolse il problema un ragazzo al quale facevo da educatore in un collegio per orfani.
Alla mia domanda, mi rispose, scappando e senza guardarmi: “Rimani”.
Iniziava la corsa e la mia nuova vita. Senza pensarci un momento chiesi alla Congregazione di essere accolto per servire i poveri, non pretendevo nulla, soltanto che mi venissero assicurati un alloggio e il vitto vivendo insieme alla comunità religiosa.
Accettarono e finalmente nel marzo del 2018 mi sono trasferito definitivamente in Mozambico.
Sono ora cinque anni che viaggio da una parte all’altra del mondo per i miei rientri in Italia, ma il mio cuore, mente e anima stanno qui da dove scrivo, a Maputo, capitale del Mozambico.
Cosa è cambiato in cinque anni? Tutto.
Dio mi ha fatto comprendere la bellezza della rinuncia in favore dei poveri, dove rinuncia non è perdere ma ricevere, dove se devi perdere qualcosa, quel qualcosa è l’io che ti blocca e non ti permette di correre nella vita.
Chi l’avrebbe detto che dopo 4 anni nell’orfanotrofio della Congregazione fossi chiamato a fare un altro salto.
E così è stato che lo scorso anno la Nunziatura Apostolica del Mozambico mi ha chiesto di collaborare in una opera matta come lo sono io, in Casa Mateus 25.
Questa opera, donata dal presidente della repubblica mozambicana al Papa nel 2019, abbraccia, accoglie e ascolta giovani e meno giovani che vivono per strada e che consumano droghe e alcol.
Passare da una realtà infantile e adolescenziale ad una realtà come quella che vedo tutti i giorni, non è da persone normali, me ne rendo conto, ma guai a togliermi i miei poveri, guai a togliermi la loro puzza, i loro piccoli grandi peccati, le loro regole di strada, i loro dolori, le loro miserie per essere gli scartati della società.
In questa realtà io vivo e voglio vivere, sapendo che non cambierò certamente la loro vita, ma sapendo anche che, quando vengono a medicarsi per le piccole o grandi ferite della vita in strada, hanno davanti qualcuno che non chiede loro se hanno rubato o quale altro peccato abbiano commesso, ma come stanno e come possono essere aiutati in questa o quella situazione, e se li abbraccia anche, diventa il loro papà putativo.
E in questa ricerca di prossimità io mi sento, come scrivevo all’inizio, sempre più un giovane, con la voglia di conoscere e spingermi là dove non avrei mai immaginato fino a 5 anni fa, così come quando circa due mesi fa mi sono recato nella “bocca di fuoco “ di Maputo, in un quartiere chiamato Colombia.
Bè, il nome dice tutto, il luogo in cui si spaccia e consuma droga in qualsiasi ora, complici militari e poliziotti.
Un luogo pericoloso naturalmente, dove non è difficile poter ricevere una qualche pallottola di benvenuto, ma visitabile se sei conosciuto, se ti sei sporcato coi fratelli girando tra le stradicciole maleodoranti, visitando le loro case, usando il loro gergo, facendo tuoi i loro sentimenti e le loro sofferenze.
Tutto qui.