L’estate che mi ha fatto grande

Durante i pomeriggi d’estate non volevo stare a casa a vedere la tv. Anche se le televisioni private mandavano in onda i miei cartoni animati preferiti, i migliori.

Dicevo: “a pochi giorni dall’inizio delle vacanze ci sono tutti gli amici da sfidare a calcio”.

La seconda media era finita, e io ero stato promosso a pieni voti, volevo solo il campetto sotto casa dove giocare da mattina a sera.

L’anno prima, i prati di città, si erano trasformati in luoghi pericolosi, la vicenda di Alfredino non ci avrebbe più abbandonato nel cuore e nelle coscienze.

Quante tracce restano nella storia e questa che racconta di un’estate di campioni è quella di un uomo che, allora dodicenne, innamorato del calcio e delle partite sotto casa è segnata da un’impresa che avrebbe portato l’Italia fuori dall’incubo degli anni di piombo.

In famiglia mi chiamavano Paolino, che per strada in quel giugno afoso del 1982 diventò Nino.

Io non capivo perché, i più grandi cantavano “che non dovevo aver paura di sbagliare” ma poi seppi che la storia era quella di una leva calcistica che avrebbe voluto la fantasia sul campo di pallone e non permettere ai pensieri pesanti di dettare legge.

Poi successe qualche cosa di speciale.

Dopo alcune settimane di vacanza, esattamente il 5 luglio,  al campetto, tutti quanti iniziarono a chiamarmi Pablito.

A me piaceva il calcio in tv non ho mai provato un forte interesse nelle squadre che non fossero la AS Roma, poi quell’anno, con il ventesimo scudetto alla Juve, poco contava sapere cosa fosse successo. Solo il capocannoniere Roberto Pruzzo avrebbe lasciato una speranza per l’anno successivo, quando tutta la città di Roma si sarebbe tinta di giallo rosso.

La mia storia di Pablito di Roma sud oggi segna il tempo con i suoi 40 anni da quella finale dell’11 luglio 1982.

Nel frattempo i miei di anni sono arrivati a 52 veloci un lampo, ma quel sogno gridato per strada da un paese che voleva rinascere, è rimasto immutato fino ad oggi.

La mia Nazionale di calcio, la sola che ricordo a memoria, – Zoff, Gentile, Cabrini; Oriali, Collovati, Scirea; Conti, –  è presente ogni volta che mi chiedono “tu che facevi quel giorno”.

Un gruppo di campioni che all’apparenza è più attuale di quella del 2006, e che è salita piano piano nel desidero di arrestare il mio di calcio giocato per seguire i capelli lunghi di Cabrini e capire come si muoveva in area il vero Pablito.

Il campetto sotto casa era fatto di terra e polvere e se andava bene le linee erano segnate con un po’ di gesso rubato al cantiere del palazzo in costruzione dietro la via. Una città che stava espandendosi e io che dopo le vittorie su Argentina a Brasile ero incredulo di come un paese intero stesse diventando il più forte di tutti.

Essere stato ribattezzato come il capocannoniere del mondiale era un regalo unico, ancora oggi me lo ricordano in casa, anche se sarebbe meglio chiamarmi Paolone vista la pancia ormai fuori controllo.

Il mio calcio giocato non c’è più, ho smesso da anni ma con mio figlio, anche lui dodicenne, ci stiamo regalando dei pomeriggi unici, incollati alla tv per 90′ a rivedere le vecchie cassette di Spagna ’82.

Chi è nato con la rete fa fatica a capire i tempi di quel calcio, le pause, le azioni ma anche solo i volti dei giocatori più grandi di quanto fossero all’anagrafe, nella loro sobrietà orfana di tatuaggi.

Sono trascorsi 40 anni e la voglia di non smarrire alcun ricordo è la forza che fa stare insieme più generazioni gridando ancora a ogni gol.