La scelta di Norman

Ogni giorno facciamo scelte, migliaia di scelte.

Scelte comode, difficili, forti, sbagliate, coraggiose, disastrose.
A volte sono ininfluenti, perché magari quello che doveva succedere sarebbe accaduto comunque; a volte hanno un impatto dirompente sulla nostra vita, e continuano a provocare conseguenza ad anni di distanza.

C’è chi ritiene che ognuno di noi è fatto in una determinata maniera, e le sue scelte non sono che una conseguenza inevitabile del suo modo di essere: un buono sceglierà per il bene, chi è nato malvagio compirà scelte egoistiche e tendenzialmente negative.

A me piace pensare che sia il contrario: sono le nostre scelte che definiscono quello che siamo.

Ogni giorno abbiamo migliaia di opportunità per scegliere come vogliamo comportarci, e di conseguenza che tipo di persona vogliamo essere.

Non sappiamo che tipo di persona fosse Peter Norman, quando arrivò all’appuntamento col destino di quel giorno che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.

Sappiamo però quale fu la sua scelta, quali furono le conseguenze, e come quella scelta abbia fatto di lui un uomo giusto, la cui storia merita di essere raccontata.
E’ il 16 ottobre di un anno particolarmente turbolento nella storia dell’umanità: il 1968.

E’ l’anno della ribellione, delle lotte studentesche, dei carri armati sovietici che reprimono la Primavera di Praga, delle insurrezioni razziali, dell’assassinio di Bob Kennedy e di Martin Luther King.

Il 2 ottobre a città del Messico in Piazza delle Tre Culture la polizia apre il fuoco su una manifestazione studentesca per i diritti umani: passerà alla storia come il massacro di Tlatelolco, in cui perderanno la vita oltre cento studenti.

Ci si interroga quindi se ha senso celebrare le Olimpiadi, il cui inizio è previsto solo dieci giorni dopo la strage, il 12 ottobre, nella stessa Città del Messico: il Comitato Olimpico decide di proseguire comunque con i Giochi, sulla base del principio per cui la repressione studentesca sarebbe un problema di politica interna messicana che nulla ha a che fare con i giochi olimpici, perché lo Sport deve rimanere distinto dalla Politica.

In questo clima infiammato, il 16 ottobre si corre la finale dei 200 metri:

l’ordine di arrivo vede vincitore lo statunitense Tommie Smith, medaglia d’argento l’australiano Peter Norman (che con quella gara stabilirà il record nazionale di specialità, a tutt’oggi imbattuto), terzo lo statunitense John Carlos.

Prima della premiazione, negli spogliatoi, Norman vede Smith e Carlos molto tesi, che fanno gesti inconsueti, si levano le scarpe, indossano strane collane di pietre nere: gli spiegano che aderiscono all’Olympic Project for Human Rights, un’organizzazione che in contrasto con il comitato olimpico riteneva di utilizzare le olimpiadi come occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle discriminazioni razziali in essere in tutto il mondo.

L’organizzazione, dopo aver valutato il boicottaggio delle olimpiadi da parte degli atleti neri, opta per una strategia diversa:

partecipazione alle gare e compimento di gesti clamorosi ed iconici.

Smith e Carlos stanno per essere premiati in mondovisione, e decidono che è il momento di sfidare il CIO e tutti i bianchi con un gesto destinato a rimanere nella storia: si presenteranno sul podio scalzi, in segno della povertà dei neri, con al collo una collana di pietre nere in rappresentazione dei linciaggi subiti dagli afroamericani.

Indosseranno la spilla dell’Olympic Project for Human Rights, abbasseranno il capo come simbolo dell’attuale sottomissione dei neri, e soprattutto alzeranno al cielo il pugno destro fasciato di nero come icona della montante ed incontenibile rabbia razziale.

Nel clima teso ed avvelenato di quell’anno, i ragazzi sanno che il gesto avrà un forte impatto, ed un altrettanto forte reazione dalle autorità costituite; probabilmente gli rovinerà la vita, sicuramente gli rovinerà la carriera.

Ma Smith e Carlos, neri, sono pronti a sacrificare tutto in nome della causa dell’emancipazione razziale, a cui hanno deciso di dedicare la vita “per l’onore dei nostri padri e per amore dei nostri figli”.

Sono però comprensibilmente nervosi, e nella concitazione Carlos si accorge di aver scordato i guanti di pelle nera.

Stanno per decidere che li userà solo Smith ma Norman, più lucido in quel momento, suggerisce di usare un guanto per uno, uno per il pugno destro e l’altro per quello sinistro anche se non avranno entrambi il braccio destro alzato, il gesto sarà comunque forte.
Gli statunitensi lo ringraziano e stanno per avviarsi fuori dagli spogliatoi, quando Norman li spiazza con una frase inaspettata:

“I Will Stand with You!”.

Gli statunitensi restano stupiti che un bianco possa decidere di rovinarsi la carriera per sostenerli, ma Norman spiega che anche inel suo Paese la questione razziale è molto accesa, con gli arborigeni costantemente depredati e perseguitati dal governo, e che è la sua occasione per fare la cosa giusta.

Si appunta sul petto la coccarda dell’ Olympic Project for Human Rights, e sale sul podio con Carlos e Smith, sancendo la fine della sua carriera sportiva, e il suo ingresso nella Storia.

Norman sarà poi ostracizzato dalla federazione australiana, non convocato per le olimpiadi successive, nonostante avesse abbondantemente i tempi per accedervi, e poi completamente emarginato, malgrado il suo record nazionale sui 200 realizzato quel 16 ottobre sia a tutt’oggi in Australia ancora imbattuto.

Era un bianco, campione olimpico, avrebbe potuto limitarsi a girare la testa dall’altra parte, in fondo non erano fatti suoi.

Ma quel giorno Norman ha scelto: “I Will stand with you”

Quando guardavo quella famosa foto, mi ero sempre soffermato sui pugni neri al cielo, sulle collane di pietre, sullo sguardo basso e rabbioso dei neri.

Oggi guardo Norman, il bianco, l’anonimo “terzo uomo” della famosa foto: al suo petto una coccarda che avrebbe potuto decidere di non indossare;

nei suoi occhi la fierezza di chi sa di aver fatto la scelta giusta.

StorieDaCaffè

 

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