Oltre vent’anni fa grazie all’Università scoprii la Patagonia. Il mio primo viaggio “En el fin del mundo”.
Nato per incontrare rappresentanti dell’etnia Yamanà che vivevano nei dintorni di Ushuaia nella Terra del Fuoco, l’ultima testimonianza orale dell’antico linguaggio Yamanà.
Fu un viaggio nel viaggio, e lo straordinario incontro con quella gente, dopo tre settimane passate in quei luoghi, non è stato l’unico avvenimento che mi ha segnato profondamente.
Partito da Roma, 10 ore di volo fino a Buenos Aires, poi altro volo di 3 ore e mezzo fino a Rio Gallegos e poi una vecchia corriera dal motore recalcitrante e dalla carrozzeria fatiscente, per altre tre ore mi portò ai confini del mondo.
Quando Papa Bergoglio, all’atto del suo insediamento allo scranno di Pietro, disse che i vescovi presero il nuovo Vescovo di Roma fino alla fine del mondo, io che avevo visto quella parte lontana della Terra, ebbi l’esatta percezione di quanto fossero lontani quei posti.
Io della Patagonia scriverei una quantità smisurata di parole e non riuscirei a darvi che una piccola percentuale di quello che ho vissuto e provato, ma provo a raccontare qualcosa.
Al primo viaggio, in macchina, che feci, procedevamo sulla Ruta 40 che è l’equivalente argentina della Route 66, su questa strada ci sono stato per ore.
La Ruta è una lingua di asfalto stretta, che chiede quasi permesso, tra campagne infinite, lambendo montagne minacciose e laghi infiniti, difficilmente si incontra qualcosa o qualcuno, quando succede, gli autisti si salutano come fanno i marinai che si incontrano in mezzo al mare.
La Patagonia è anche questo, un mare, un mare di acqua, ma anche di terra, di montagne, di vegetazione, di animali.
Qui gli uomini sono pochi, e sparsi in un territorio infinito, e forse anche per questo che è un posto meraviglioso.
Durante il trasferimento sulla Ruta la macchina si fermò, e non ne volle sapere di ripartire.
Io, nella mia piccolezza che vive nelle proprie sicurezze, mi sentivo perduto, il mio compagno di viaggio con tranquillità, mi disse che non c’era nulla di cui preoccuparsi, bisognava solo avere pazienza.
Lui aveva una ricetrasmittente e con quella aveva chiamato soccorso e dopo la richiesta di aiuto si era messo a bere un mate.
Io nonostante le assicurazioni ero agitato, abituato alle mie piccole nevrosi mi sentivo mancare la terra sotto i piedi.
Di fatto ero l’esatto opposto del mio compagno di avventura, in più il sole ogni tanto si celava, non per le nuvole che passavano, ma per dei condor che volteggiavano sopra le nostre teste e la temperatura si abbassava repentinamente.
Non erano una minaccia, ma il loro volo mi faceva intendere che non ero forse gradito.
Questo è stato il primo approccio con la mia nuova realtà, non ero un viaggiatore accompagnato con tutti gli onori, bensì un ospite ed anche mal sopportato.
Il secondo episodio che comprovava la mia inconsistenza, nei confronti di quello che mi circondava, è stato quando ho incontrato il ghiacciaio Perito Moreno.
È un grande ghiacciaio, particolare, perché è uno dei pochissimi, al mondo, che non regredisce la sua massa, ma l’aumenta.
Mentre il battello, che ci stava portando al suo cospetto, si avvicinava lentamente alla enorme massa bianca, vidi questa parete, massiccia alta, decine di metri, e a vista d’occhio si perdeva fendendo due costoni di montagna, mentre non sapevo dove posare il mio sguardo.
Senza avvertire, ma con un ritmo che aveva un qualcosa di musicale, ritmicamente si staccavano colonne di ghiaccio che quasi inchinandosi dolcemente si tuffavano nel lago, verdissimo, e questa danza tra ghiaccio ed acqua si muove eternamente.
E rimasi a bocca aperta, per lo spettacolo, per l’ineluttabilità della legge della fisica, dove l’uomo non può e non deve fare niente, solo stare a guardare e ricordarsi di essere, per questi spettacoli, solo uno spettatore.
Ho parlato con gli abitanti che stanziavano sulle coste dell’Oceano Atlantico al confine con la Terra del Fuoco, mi raccontavano di come avevano nei loro cuori il dolore, vivo, dei loro ragazzi morti nella guerra delle Malvinas, Malvinas mi raccomando, se li correggete e cambiate il nome a quelle isole sperdute con la parola Falkland, cambiano il loro sguardo, e da dolce e melanconico, passano ad uno fiero ed adirato.
Certi ricordi non vanno via, e alcuni che legano affetti che non ci sono più per colpa di una guerra perduta, per un arcipelago che all’Argentina non appartiene più, quei ricordi rimangono come una ferita che sanguina, sempre.
Incontrai poi queste due anziane rappresentanti dell’antico popolo degli Yamanà, oramai ultime testimoni di una lingua che sarebbe scomparsa con loro.
La lingua era costretta a scomparire perché erano analfabete e la lingua a loro era stata tramandata solo oralmente, e solo oralmente la potevano testimoniare.
Anche interagire con loro non fu facile, perche sapevano poche parole in spagnolo e comunicavamo tra lingue, gesti ed anche silenzi.
Da un punto di vista tecnico, a distanza di anni, posso dire che non fu una facile interazione, assolutamente no.
Ma porto con me, ancora, la loro serenità, non erano preoccupate che, con loro, sparisse la lingua e la cultura di un popolo, del loro popolo.
Non era un vezzo, non era una stoltezza, ma è stata la chiave per capire come i primi nativi avevano vissuto in, e la, Patagonia.
Gli autoctoni che hanno popolato prima dell’avvento degli spagnoli, sapevano che la natura era la vera padrona di quei luoghi, sapevano che gli uomini e le donne si dovevano adattare in un contesto difficile con la pazienza ed il rispetto di chi deve sapere che è più che mai di passaggio, che prima o dopo dovrà lasciare alla vera proprietaria di quelle terre.
E quell’approccio alla vita e a quei luoghi, ancora permeavano lo spirito di quelle signore, eredi legittime dei primi nativi.
Il mate, la bevanda che accompagna le giornate, anch’esso è testimonianza del modo di vivere da quelle latitudini.
Si prepara lentamente, si gusta con altrettanta pazienza, con il suo gusto corposo che ti avvolge, ti rilassa, ti soddisfa.
Il bestiame che si vede pascolare libero, senza recinzioni, per prati sterminati, senza alimentarlo chimicamente, me lo ricordo come in modo simpatico, senza cattiveria, mi apostrofavano che noi europei, all’epoca, combattevamo con la “vaca loca”, mucca pazza, e loro preparavano l’asado (arrosto argentino) senza preoccupazioni.
Mi portarono ad osservare anche un modo particolare di come, a volte, cucinavano gli alimenti.
Li mettevano in sacchi di Juta, e li ponevano sotto la terra appena mossa, e sopra vi accendevano dei fuochi in modo da cuocersi al contrario, questo mi spiegavano, era una tecnica ereditata da argonauti polinesiani, mille anni fa, ennesima prova che Cristoforo Colombo non fu il primo a scoprire il continente americano.
Patagonia, un viaggio nel viaggio, consiglio di visitarlo e perdersi, nei suoi paesaggi, nei suoi spazi che all’inizio possono spaventare, ma se ti perdi e non pretendi, ti sorprendono, ti elevano, ti portano a rivedere, in modo veramente diverso il tuo modo di concepire il tuo mondo.
Io quando tornai dalla Patagonia, equiparai quella mia esperienza, ad un viaggio nella “Quinta dimensione” rovesciando l’assunto scientifico, eh si, qui è il “sistema osservato che influenza l’osservatore”.
Raffaele Ippolito