La mia Maratona di Roma, l’alba del giorno zero.

Aspettato da tanto tempo in un conto alla rovescia partito il 31 dicembre 2018, quando in preda a un delirio di onnipotenza ho scritto una mail:”non ho il coraggio, fallo tu per me, iscrivimi alla Maratona di Roma”.

Ero triste, Ugo dopo 12 anni di onorato servizio come angelo della casa era morto l’antivigilia di Natale e io non volevo pensare, volevo solo liberarmi di quella tristezza pur avendo la consapevolezza che correndo da appena un anno e mezzo era una follia bella e buona.

42Km e 195 metri, quei 195 metri che mi spaventano forse più dei 42 km che li precedono. E’ lungo anche se voglio scriverlo a lettere “quarantadue chilometri”.

Il Garmin comincia a vibrare alle 5.30 del mattino, la sera prima avevo parcheggiato sul comodino il parmigiano da 20g e il panino al prosciutto previsto per la colazione insieme alla borraccia con gli integratori.

Non voglio svegliare mio marito, reduce da tre mesi di domeniche in cui non si dorme, non si mangia, non si esce perché sono spalmata sul divano senza forze a dormire con la bolla al naso come il classico ciccione moccioso dei cartoni animati.

Mi alzo, i vestiti mi aspettano in bagno, nemmeno una modella sceglie l’outfit con tanta cura e tanto anticipo. Le calze a compressione coloratissime, intonate con le scarpe e con la maglietta da mettere sotto la canottiera sociale. Le trecce da boxeur perché sono una combattente, le scarpe, l’oggetto a cui tengo di più.

Al mio compleanno i miei amici mi avevano regalato un buono con cui ho comprato le mie “scarpe magiche”, quelle che mi avrebbero portata oltre quei 195 metri conclusivi.

Sono pronta. Pronta ad uscire dalla porta ed andare incontro alla mia avventura. Il cuore mi batte rumoroso, la gamba mi fa male ormai da mesi anche se fingo di non accorgermene, domani riposerò e il dolore passerà.

L’aria è ancora fredda nonostante sia aprile, una leggera pioggerella mi investe ma non la sento sotto tutta quella lacca che mi doveva lasciare intatte le trecce dal mattino precedente, o forse semplicemente non la sento perché sono completamente anestetizzata dalla paura, paura di non farcela? no, ho la testa troppo dura, paura di non essere all’altezza delle mie aspettative.

Un uomo rovista in uno zaino cercando un impermeabile per ripararsi dalla pioggia, ne tira fuori uno e con mia grande sorpresa è un impermeabile della Roma-Ostia, identico a quello che indossavo io, ha un cartiglio con il numero di pettorale attaccato allo zaino, partecipa alla maratona come me.

“Maratona di Roma?” “Si! Anche tu presumo”

“Già”

“Vieni, andiamo a prendere la metro!”

Il mio nuovo amico non è un ragazzino, credo abbia passato la settantina e mi racconta che lui la fa ogni anno da un bel po’, mi rassicura dicendo di non aver paura, che è un’esperienza indimenticabile “la prima maratona”, poi prosegue con i suoi racconti ma io non lo seguo molto, travolta dalla mia ansia e da quella sensazione di totale idiozia per aver attaccato l’adesivo sullo zaino con le spille invece di girarlo su se stesso come aveva fatto il mio esperto amico.

La metro arriva a Circo Massimo, lui mi chiede se voglio un caffè, ma io sono come un gatto nel trasportino, non bevo, non mangio, non faccio pipì.

Lo saluto, non ricordo più il suo nome, ma non dimenticherò mai la fonte di energia positiva che è stato per me in quel momento di bisogno, ogni tanto, quando esco a correre per il quartiere, lo cerco negli occhi dei runner che incontro, per ringraziarlo di quella corsa in metro che non dimenticherò mai.

Eccoli li, tutti immersi in quel fiume colorato, ognuno una goccia nel mare di colori di quella mattina uggiosa, ognuno una storia più o meno come la mia, ognuno con il suo obiettivo da raggiungere, ognuno con il suo segno distintivo, la società di appartenenza, il colore delle calze, il bandana fluo, il gonnellino, le trecce, il tricolore dipinto in viso.

Anche io ho il mio, il colore. Da quando corro, mi sono guadagnata o forse trovata il soprannome di “unicorna”.

Non so nemmeno da dove venga fuori, se dalla carica di endorfine che mi fa sparare cazzate come se avessi una mitragliatrice a munizioni infinite, o per la mia passione per i colori, o per il mio invincibile ottimismo, si perché inguaribile è poco, il mio ottimismo è invincibile, passato attraverso una sequela di disgrazie e giunto intatto se non rafforzato ai giorni nostri.

“La vita è breve, non va sprecata con la sofferenza o con brutti sentimenti, ogni momento è prezioso”.

Quindi unicorna e il suo esercito di unicorni che diffondono felicità cagando arcobaleni è immersa in un fiume di colori che si avvia alla partenza della sua ultima follia. Se me lo avessero detto anche solo due anni prima, quando entrando in palestra e salendo sul tapis roullant esclamai

“io non correrò mai!non fa per me”, avrei riso fino ad avere mal di pancia.

Io che da quando è morto papà ho avuto paura di avere un infarto almeno 1000 volte, avrei corso per 42,195m. Se non fa ridere questo!!

Arrivo al furgone dove devo lasciare il mio zaino. Mi appoggio ad un muretto per togliermi la tuta, respiro e mi incammino, incontro gli altri, le mie ancore di salvezza in questo mare di sentimenti, i miei amici.

E’ il momento. Si va in griglia.

Anto è accanto a me, mi fa sentire sicura, non voglio andare veloce, non voglio fare il tempo, in un attimo prendo la mia decisione, comunque vada voglio varcare quell’arco, voglio quella medaglia al collo.

Si parte, la pioggia ci da tregua, a tratti esce il sole. Prendo coscienza di me sulla Colombo, erano passati circa 10 km, stavo andando, la gamba era silente, avevo fiato e gambe e cercavo di risparmiarli per i momenti peggiori.

Chi sa che facevano gli altri, quelli che l’anno prima erano il gruppo del tifo a cui mi ero unita.

Avevamo fatto la notte insieme per dipingere striscioni e studiare il percorso ed eravamo tornati a casa senza voce e felici per aver dato coraggio a quei matti che correvano.

Stavolta la matta ero io, chissà se li avrei visti oggi, chissà se mi aspettavano al traguardo. 24km, superata la metà mi sento positiva, mi sento forte, mi sento un dio. Il tempo non lo guardavo nemmeno, non importava, contava arrivare.

Sento urla, tamburelli, trombette, giro l’angolo ed erano li, li stavo aspettando, mi mettono una collanina hawaiana al collo e mi urlano nelle orecchie dandomi coraggio. Quelli sono i miei amici.

30km.

Un pensiero emerge dal passato insieme al dolore alla gamba, ho paura, il mio cuore sta andando a battiti elevati da almeno 4 ore, ma sono pronta per questo?

Vuoi vedere che il temuto infarto mi aspetta proprio li? Cento metri più avanti. Stramazzerò a terra.Il mio corpo non può affrontare tutto questo. Ho improvvisamente paura.

La gamba mi distrae, sembra un meccanismo arrugginito, ad ogni passo il dolore è sempre più forte, forse non è il cuore il mio nemico, forse è lei, la mia gamba sinistra, quella che da settembre mi faceva male, quella che alla fine dei miei 34 km mi aveva fatta piangere di rabbia e dolore.

Cammino.

Che vuoi che sia se cammino per un po’?

Sono sola, ma si!! passatemi tutti, la gamba mi fa vedere le stelle ma io devo arrivare. Fermarsi non è proponibile, fermarsi non è una opzione.

Eccomi al 33esimo km, e loro sono di nuovo li, sul lungotevere, mi vedono soffrire, mi incitano, mi dicono che è finita, mancano meno di 10km “non arrenderti!!non mollare ora!!Sei una grande!!”

Li ritrovo a tratti lungo gli ultimi km, ma anche se non ci fossero sarebbero li con me comunque perché me li porto nel cuore da quel giorno e per sempre, qualunque cosa accadrà, anche se litigheremo e non ci parleremo più, quel giorno resterà li per sempre, come un quadro prezioso sulla parete di un museo, così prezioso da non avere mercato, così prezioso che nessun ladro potrà mai rubarlo.

40km, ne mancano due, Circo Massimo, Colosseo, poche centinaia di metri e ci sono, poche centinaia di metri e avrò passato il traguardo.

Ormai è l’inerzia che mi porta, ormai è la mia testa che manda avanti questo burattino svuotato di ogni forza.

Mancano davvero una manciata di metri, lo vedo, il traguardo è li, una mia amica ha i crampi, è ferma al bordo del percorso, le gambe non le girano più, faccio per fermarmi, quando sento una voce che mi urla “corriiii!!!ma che cazzo fai?è la tua gara, la tua maratona, corriiii!!” E così faccio, corro, corro come mi aveva urlato lei.

Corro e vedo mio marito dietro le transenne, gli faccio un cenno e lui mi incita a passare il traguardo, lui che urla solo agli automobilisti che gli tagliano la strada perché parlano al cellulare, lui inseparabile amico del divano era li a dirmi di arrivare, a dirmi che ce l’avevo fatta.

Mi sentivo come Rocky dopo l’incontro con Apollo Creed, ammaccata, dolorante, senza forze, ma non potevo mollare adesso. Allargo le braccia, voglio abbracciare il mondo, ho passato il traguardo. Nella battaglia tra me e me stessa avevo vinto, ce l’avevo fatta, circondata da tutto l’amore che si possa desiderare, ora potevo riposare, ora potevo dormire.

Sono passati molti mesi, il dolore alla gamba era una distrazione del flessore sinistro, mi sono curata e mi sono rivolta ad un allenatore, una donna straordinaria che con la sua carica di energia mi porterà a New York.

Ludmilla Sanfelice