Sto ascoltando Waterlove e il pensiero vola indietro agli anni 90, ad una pubblicità della Levi’s dove un gruppo di sirene cerca di sfilare i pantaloni ad un bel naufrago.
La musica porta i miei pensieri proprio lì. In fondo al mare.
Sembra strano perché io a parte il running sono cresciuta come una bambola di porcellana con cui i bambini non possono giocare per paura che si rompa, ma c’è stato un tempo in cui ho provato la straordinaria sensazione che si prova in fondo al mare. Detta semplicemente ho fatto immersioni ed ero anche una temeraria!
Andiamo indietro nel tempo. È l’anno della laurea. Praticamente la fine dei lavori forzati. Una vita tra i banchi di scuola tutte le mattine e all’improvviso sono libera. Una sensazione quasi frustrante. Come Fantozzi che va in pensione e non sa come riorganizzare la sua vita, come chi perde un arto e continua a sentirlo, ma non importava. Ero finalmente una donna libera. Libera di fare quello che volevo almeno per i pochi mesi dell’estate.
Decisi che avrei fatto l’eremita. Primo perché la solitudine non mi spaventa più di tanto e secondo perché volevo vivere il mare a 360 gradi. Come quelli che decidono di vivere in spiaggia e passano le loro giornate e le nottate in costume e ciabatte, con la mente priva di ogni pensiero, seguendo uno stile di vita primitivo. Alla giornata.
Sono state giornate innegabilmente meravigliose e dopo una prima settimana di dolce far niente accarezzata dal sole e cullata dal rumore del mare, lasciai la scogliera per andare al diving ed iscrivermi ad un corso di immersioni per prendere il brevetto PADI da 18m.
“Ciao, vorrei iscrivermi”
“Sai nuotare?” Mi chiese il titolare con la muta a penzoloni e un sorrisetto di scherno.
“Quanto basta” risposi secca, non per stizza ma semplicemente perché come ogni timido professionista che si rispetti mi sentivo una completa imbecille.
Mi affidò prontamente alle attenzioni di un ragazzetto che non aveva più di 18 anni, pesava 30kg e si sentiva un gran figo. Mi diede una bagnarola e mi fece vedere cosa metterci dentro ogni volta, questo perché la prima regola delle immersioni è che devi provvedere tu a te stesso, non hai lacchè o servitori, sei tu che devi guardarti il tuo e guardare le spalle al tuo compagno che le guarderà a te. Un rigore quasi militare che è essenziale in situazioni “di vita o di morte”.
Ho una maschera, un paio di pinne, una muta appena estratta dalla vasca con acqua e candeggina, sciacquata e appesa ad una stampella ad asciugare, una cintura di pesi calibrati sul mio peso e un GAV. Il GAV è un giacchetta che si sgonfia nel momento in cui inizia la discesa nel blu.
Mi spiega come montare l’erogatore alle bombole e come preparare tutta la mia attrezzatura. Mi fa mettere la muta a secco, ovvero a terra. Avete mai provato ad infilare una muta di neoprene senza prima bagnarla?
È come infilare i vostri jeans taglia 40 di quando avevate 13 anni ora che ne avete 75 e pesate novanta chili.
Potete torcervi come un boa costrictor ma vincerà sempre lei almeno finché non avrete più fiato e sarete distrutti come dopo una 10km tirata a 4 min/km che per me è la velocità della luce.
Una volta infilata la muta il grosso è fatto. Pensavo di dover salire in barca e invece mi aspetta la mia prima lezione in “acque confinate”.
Praticamente dove si tocca ed è quasi impossibile fare danni. Imparavo velocemente, ero stranamente portata e non vedevo l’ora di scendere nel blu. I più esperti potranno confermarvi che con un PADI da 18 m farai poco più che snorkeling, ma confesso che una volta presa la mano, con una guida straordinaria e temeraria, mi sono spinta anche un po’ oltre. Forse più che un po’. Devo dire che sono stata una fortunata perché oggi forse non lo rifarei.
La prima uscita in acque libere fu in un posto meraviglioso poco distante da Positano. Lo chiamano “Scoglio a penna” per via della forma che ricorda una piuma di gabbiano in superficie, ma sotto…quando scendi sotto c’è una specie di asola gigante che, quando il mare è calmo e non c’è corrente, ti permette di passare da una parte all’altra, una specie di portale magico tutto completamente tappezzato di stelle di mare di un vivido colore rosso. Istintivamente allungai la mano per staccarne una e prontamente fui fermata e redarguita dalla mia guida.
“Il mare ti dona tantissime cose, nutrimento, scheletri di animali morti bellissimi e dai colori stupendi, ma quello che è vivo, quando sei in immersione, non ti è consentito toccarlo o modificarlo. Una stella di mare muore quando la porti anche solo a pelo d’acqua. Perché deve dare la vita per la tua smania di portare a casa un trofeo che in poche ore puzzerà e lo butterai via?”
Quelle parole mi colpirono così tanto che ne feci una filosofia di vita. Ormai anche se sono in un bellissimo giardino e vedo dei fiori che porterei a casa volentieri, quelle parole mi risuonano nella mente come un mantra. Perché devo togliere la vita a qualcosa di così bello per il mio puro capriccio?Tra un istante lo avrò abbandonato su un muretto e non ne avrò più desiderio mentre il ricordo di quel fiore bellissimo mi accompagnerà per sempre.
Imparai ad avere rispetto di tutto quello che viveva in fondo al mare e in natura in genere.
Tornai a casa. Ormai non mangiavo quasi più. Tornavo distrutta, afferravo un frutto in cucina, lo mangiavo e mi infilavo a letto sfinita. Tutto quell’ossigeno denso è uno stress piuttosto forte per il corpo e una mattinata tra barca e profondo blu era sufficientemente stressante da farmi desiderare solo una bella dormita, cullata dal frinire delle cicale, dai calci ad un pallone sotto la finestra, dal tintinnio degli alberi delle barche a vela, mentre gli occhi brucianti e pesanti si chiudono e mi abbandono ad un sonno profondo.
Ogni mattina mi alzavo rinvigorita. Rigenerata. Pronta a ripartire.
Quella mattina, alle 8 avevo già la cesta pronta e aspettavo gli altri sul molo.
“Ludmì…si carut d’o liett?”
È la voce stridula di Liberato. Il marinaio che ci avrebbe accompagnati a vedere la Madonnina sotto lo scoglio di Vervece. Una Madonnina che periodicamente viene portata a riva, ripulita e riposizionata in fondo al mare.
Arriva la mia guida. Mi guarda le mani e il collo.
“Hai cose che luccicano? Se le hai toglile. Se siamo fortunati incontreremo un banco di Barracuda che gira da quelle parti”
“Fortunati? Ma non sarà pericoloso?”
Scoppia in una risata fragorosa.
“Muoviti che non ti aspettiamo!”
Come sempre…
Ci immergiamo e dire che è un’esperienza magica è riduttivo. Respiro come Darth Vader, ma quel respiro meccanico mi culla, mi rilassa, mi da un senso di pace.
Percorriamo a nuoto il corridoio delle gorgonie rosse. Una specie di sentiero sottomarino con questi bellissimi rami violacei ai due lati che marcano il sentiero fino alla Madonnina e eccola lì.
Ha il volto sereno, incrostata come il pirata Davy Jones con le mani giunte in preghiera, in completa armonia con il fondo del mare. Raramente in vita mia mi sono sentita così in pace, pur non essendo esattamente una praticante. Era come se due culti si unissero in un’unica immagine. Dopo tutto se la chiami Madonna o la chiami Madre Terra è sempre della madre delle madri che parli. Se sei ateo magari ti limiterai ad ammirarne l’aspetto artistico, ma inevitabilmente sentirai qualcosa muoversi dentro di te. È il senso della vita che ti richiama al di la del tuo credo religioso. Sei nel grembo materno e non senti pericolo, solo pace.
Ci spostiamo dietro una roccia, come dei bambini che giocano a nascondino. Eccoli la. Sembrano dei pezzi di metallo, iridescenti alla luce che ancora filtra a bassa profondità. Si muovono all’unisono, scattosi, con gli occhi grandi e fissi, inespressivi. Sono piccoli.
Sinceramente sono rimasta un po’ delusa. Non sono un’etologa, ma nemmeno mi aspettavo lo squalo bianco del film. La nostra guida ne afferra uno per la coda. Si dibatte. Ho un sussulto. Proprio perché non sono un’etologa. Lo squaletto si divincola e guadagna il suo branco di amici. Proseguono il loro giro, sembra che abbiano il pilota automatico.
Sono anni ormai che non mi immergo. Con la maturità ho perso la spericolatezza, ma ancora oggi, quando guardo qualche documentario ricordo quel giorno.
Il giorno in cui ho nuotato vicino ad un banco di Barracuda e non ho avuto paura.
Ludmilla Sanfelice