Una mattina di metà luglio del ’45 eravamo con Peppe e Felice al molo dei Marinaretti di Anzio e stavamo lavando la barchetta di Nandone.
Avevamo appena finito la solita uscita all’alba per prendere qualche gallinella da farci la zuppa.
Ad un certo punto, Nandone si ferma, ci guarda e dice: “Ve va de batte l’americani a corsa?”
Era da tempo che voleva fargli fare una figuraccia in paese, ne eravamo tutti consapevoli e avrebbe usato qualsiasi mezzo.
Nando era uno come noi, un po’ sbruffone ma in fondo un bonaccione.
Dopo l’8 settembre del ’43, scappò via dal fronte e, una volta tornato in famiglia, si rimboccò le maniche per difendere casa dai tedeschi e ricostruirla dopo la follia della guerra.
Diceva che gli americani erano troppo forti con le pistole e i fucili e troppo belli agli occhi di Annarella sua. Aveva capito che solo con lo sport poteva batterli.
Fisico da lottatore e agile come un ginnasta, quando nuotava era imprendibile da chiunque.
Nei giorni di quell’estate calda del ’45, la devastazione provocata dalla fuga distruttiva dei nazisti e dalle bombe degli alleati, aveva creato macerie dappertutto.
Eravamo una popolazione allo stremo, ma con la speranza nel cuore e la voglia di ripartire nelle gambe.
Fu proprio grazie a queste che seguimmo il nostro Nandone, per dimostrare che non eravamo un paese di rammolliti e che eravamo ancora in grado di difenderci da soli.
L’occasione era perfetta: una gara di corsa intorno a ciò che restava della nostra bella Anzio.
La competizione era sulle 5 miglia, una misura stabilita dal tenente americano Andrew Browlie, un omone di colore a capo del contingente di stanza al porto.
Un texano che parlava un italiano incerto, ma sapeva farsi capire e ben volere dalla gente, soprattutto dalle ragazze che lo guardavano come si guarda un attore di Hollywood.
Nando non aveva dormito tutta la notte in attesa di quella mattina.
La partenza era da via XX Settembre all’incrocio con lungomare Mallozzi. Scalzo e senza maglietta, con solo un paio di pantaloncini, era tra i primi proprio accanto a noi.
Aveva voluto il pettorale numero 30, lo stesso che era scritto sui carri della compagnia di fanti con cui aveva combattuto in Veneto.
Serio e concentrato, sapeva bene cosa fare. Nei giorni precedenti, senza dire niente a nessuno, aveva provato il percorso. Voleva arrivare primo, per farsi vedere e far vedere che non aveva paura di niente e di nessuno.
L’aria ferma da un vento di bonaccia, il sole caldo già alle 9.00 non avrebbe distratto Nando dalla sua missione. Nemmeno gli americani vestiti di tutto punto, con scarpe di gomma e i berretti da giocatori di baseball, di cui sentiva gli schiamazzi da dietro le fila dei podisti.
La partenza fu fulminea; non facemmo in tempo a capire dove andare che Nando era già lontano all’orizzonte. I piedi non sentivano nulla, correva come se stesse su un prato appena rasato.
Petto in fuori e braccia alte, volò via prima di tutti: prima degli americani, degli inglesi, dei suoi amici e di un passato che non sarebbe più tornato, grazie a gente come lui che, nello smarrimento di un paese allo stremo, voleva solo correre e vincere.
Il nostro Nandone arrivò primo e lo fece per i nostri figli, per le ferite di una generazione e per Annarella sua, che lo aspettò al traguardo con il sorriso che lo affiancò per una vita intera.