Da sempre sappiamo che scalare il Karakorum 2, ovvero il K2, rappresenta una delle sfide più estreme e pericolose. Conosciuta come “La Montagna delle Montagne” o “La Montagna Selvaggia”, il K2 si trova nell’Himalaya pakistano ed è la seconda vetta più alta del mondo, con un’altitudine di 8.611 metri.
La sua difficoltà deriva dalle aspre condizioni meteorologiche, dalle tempeste improvvise, dalle pareti rocciose pericolose e dalla mancanza di vie di fuga.
L’ascesa richiede una preparazione estremamente dettagliata, abilità tecniche avanzate e una buona dose di fortuna.
Il primo a raggiungere la vetta del K2 fu il team italiano composto da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli il 31 luglio 1954. La loro conquista fu un risultato significativo per l’alpinismo mondiale e segnò la storia dell’esplorazione delle vette più elevate.
La storia del K2 è segnata anche da numerosi incidenti tragici che mettono in evidenza la sua pericolosità. Tra questi ne ricordiamo alcuni:
La Tragedia del 1986: Una spedizione giapponese al K2 subì una devastante tragedia quando una tempesta colpì il campo base avanzato e causò la morte di 13 alpinisti. Questo evento è spesso ricordato come una delle peggiori catastrofi nella storia dell’alpinismo.
La Disfatta del 2008: Nel 2008 numerose spedizioni si riunirono sul K2, ma un’ascesa frenetica alla vetta e un ritorno caotico causarono numerose vittime. Tra i morti c’erano diversi alpinisti esperti e rinomati, compresi alcuni che avevano precedentemente scalato l’Everest.
La Scomparsa di Ger McDonnell 2008: Durante l’incidente del 2008, l’alpinista irlandese Ger McDonnell perse la vita dopo aver cercato di soccorrere altri alpinisti intrappolati. La sua storia divenne una testimonianza di coraggio e sacrificio nell’ambiente impervio del K2.
L’Incidente del 2013: Nel 2013 una valanga colpì il K2, uccidendo 11 alpinisti, tra cui diversi sherpa nepalesi. L’evento ha portato all’annullamento di molte ascese previste e ha evidenziato ancora una volta i rischi costanti legati a questa montagna.
Alla continua ricerca di record e sfide, è questo che affascina spesso gli amanti dell’alpinismo, ma arrivare in cima al K2 è la sfida delle sfide per eccellenza.
Un recente episodio vede coinvolta l’alpinista norvegese Kristin Harila che, durante la scalata del K2, avrebbe scavalcato un suo sherpa morente, Mohammed Hassan, e continuato l’ascensione senza prestargli soccorso.
Due scalatori austriaci che si trovavano sulla montagna hanno filmato l’episodio nel quale si vede l’alpinista norvegese e un altro sherpa, Tenjen Lama, proseguire senza guardare ciò che passa sotto i loro piedi.
“Kristin Harila, con un coraggio ammirevole, ha affrontato la sfida di scalare tutti gli 8.000 metri asiatici in soli 92 giorni, un obiettivo ambizioso che l’avrebbe resa la più veloce alpinista nella storia di queste imprese straordinarie.” Harila è una scalatrice, campionessa di sci di fondo e di cross-county, che fa della velocità la sua dote migliore. Ha voluto a ogni costo quest’ultima spedizione per togliere il record assoluto, visto che lei già aveva quello femminile, a Purja.
Ma in questo caso la decisione di Kristin di continuare l’ascensione senza prestare soccorso allo sherpa morente ha sollevato interrogativi sulla priorità tra il perseguimento di un record personale e la responsabilità verso la vita umana.
Il trionfo è stato così oscurato da questo evento drammatico sollevando non poche polemiche.
La complessità della situazione non può essere sottovalutata. L’ambiente ostile di questa montagna, con terreni pericolosi, sentieri molto stretti e condizioni climatiche mutevoli, rende ogni decisione di soccorso un’impresa rischiosa. E spesso è questione di attimi. L’atto di tentare un salvataggio avrebbe potuto mettere a rischio non solo la vita di Kristin e dello sherpa coinvolto, ma anche quella di altri membri del team. Le condizioni estreme avrebbero potuto rendere difficile o persino impossibile un salvataggio sicuro.
La riflessione sul ruolo dell’alpinismo in situazioni del genere va oltre la mera conquista di cime e record. Ed è proprio per questo che si è aperto un vero e proprio dibattito sulla responsabilità dell’alpinista verso la propria sicurezza e quella degli altri, sulla considerazione delle vite umane in circostanze estreme.
Questa vicenda richiama alla mente la storia di Reinhold Messner, che si trovò nella stessa situazione anni fa e fu accusato di non aver fatto abbastanza per salvare il fratello.
A causa di questo avvenimento, l’impresa di Kristin Harila, oscurata dalla tragica morte di Hassan, è ora sotto l’attenzione critica delle associazioni che si dedicano alla tutela della montagna e, in particolare, dei complessi dell’Ottomila asiatici. Ora bisognerà vedere se il suo record dei 92 giorni verrà ufficializzato.