Il caso Alex Schwazer visto dal bordo delle nostre strade

Ho atteso qualche giorno prima di scrivere cosa mi ha lasciato “Il caso Alex Schwazer”, la docuserie in 4 episodi prodotta da Indigo Storie e disponibile su Netflix.

Il motivo dell’incertezza è legato al doppio filo del coinvolgimento, prima umano e poi sportivo.

All’incapacità di credere che si possa arrivare a fare quello che ha fatto il campione di Pechino 2008.

Debole, immaturo e incapace di gestire il dopo, quando gli sarebbe bastato fermarsi per fare ordine in una vita che correva a mille chilometri orari soprattutto fuori dalle gare.

Alla consapevolezza da appassionati  che il doping sia il male dello sport e che non è mai una soluzione, non è mai una strada praticabile.

Fa male quando un campione arriva a doparsi, perché per noi sono dei super errori, inattaccabili a tutto.

Sentire le dichiarazioni degli atleti russi raccontare la loro giornata fatta di “Training-vitamine-doping”.

E noi che pratichiamo lo sport tra lavoro, buona cucina e amici con cui scherzare. Che ci sentiamo in colpa anche quando saliamo su un marciapiede e tagliamo di poco la curva sul percorso di gara. Che temiamo di prendere un medicinale generico col rischio che ci faccia stare male in gara.

Io vivo nel quartiere Monetsacro di Roma e nel periodo in cui Alex fu ospite in questa zona della Capitale mi capitava spesso d’incrociarlo sui viali e in ciclabile dove corriamo abitualmente.

Erano gli anni 2015-2016 proprio quando il Professor Donati lo aveva preso sotto la sua protezione e lo stava allenando per il rientro ai Mondiali di marcia di Roma del settembre 2016 dopo la prima squalifica del 6 Agosto 2012 quando venne annunciata la positività dell’atleta all’eritropoietina ricombinante in un controllo antidoping a sorpresa effettuato dall’Agenzia mondiale antidoping il 30 luglio.

Poi il 22 dicembre 2014 davanti alla Procura di Bolzano patteggiò la pena di 8 mesi con una multa di 6.000 euro.

Tutto questo è storia e cronaca andata in pasto a media e alla pancia del podismo.

Personalmente non ho mai accettato l’ostracismo gridato da tutti verso chi sbaglia nello sport.

Il nostro sistema giudiziario e carcerario puniscono ma con il fine di recuperare il reo, anche per condanne sicuramente peggiori, ma quando si tratta di doping non c’è redenzione.

Nelle giornate romane Alex era sempre molto concentrato, in quelle sessioni di allenamento, mentre marciava tra i palazzi di una Roma distratta dalla sua solita indolenza, Alex ti salutava sorridente ma a volte aveva uno sguardo affranto e mi è capitato di vederlo piangere mentre marciava.

Cosa stesse passando era un pensiero ricorrente e così che un giorno dissi a Max Manteforte del Progetto Purosangue, la squadra con cui corro insieme agli amici. “Max ma perché non proviamo a capire come sta quel ragazzo e proviamo ad aiutarlo”.

Sarebbe stato un aiuto “amatoriale” per tutto il resto c’era già l’ala protettiva di Donati che lo copriva in tutti gli aspetti del caso, come o forse più di un padre.

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Ricordo che durante le lezioni di sport che facemmo nelle scuole per il Progetto Purosangue raccontavo ai ragazzi cosa succede quando ti dopi, i rischi per la salute e di come una vicenda privata come la storia d’amore tra Alex e Carolina possa naufragare in un mare di merda quando il doping ti prende la testa prima ancora che le gambe.

La storia la conosciamo bene come è andata a finire e la maglia Purosangue la indossava negli allenamenti di quartiere fino a quelle corse sul lungo mare di Rio, poco prima di ricevere la definitiva squalifica per 8 anni a seguito della fiala del primo gennaio 2016.

Riprendo, dalla ricostruzione dei fatti pubblicata da Roberto De Benedittis dal titolo “Verità o Finzione. Il caso Swatzer” la conclusione del GIP nella sua ordinanza di archiviazione (che non è un’assoluzione), il quale ritiene che nel procedimento si sia evidenziato che “Con alta probabilità razionale le urine siano state manipolate per screditare l’atleta e il suo allenatore”, rimandando gli atti al PM per procedere con una nuova indagine a carico dei periti, della Wada e di World Athletics.

Le prove di questo presunto complotto non sono mai state trovate nonostante le indagini portate avanti a livello internazionale e la questione è chiusa.

Per noi, spettatori da ciglio della strada su cui corriamo di un mondo lontano anni luce dalla nostra vita sportiva, è difficile capire perché si possa arrivare a fare tutto ciò, doparsi, redimersi, cadere in una trappola da intrigo internazionale.

Quanta fatica, quanto dolore e pensare che lo sport vuole che siano profusi solo per la medaglia più bella.

Marco Raffaelli
Appassionato dello sport e di tutte le storie ad esso legate. Maratoneta ormai in pensione continua a correre nuotare pedalare parlare e scrivere spesso il tutto in ordine sparso