Il calcio

Il pallone mi rotola incontro. Lo raccolgo restando seduto non senza fatica. Goffamente.

Con tutte e due le mani lo sollevo dalla polvere ed immediatamente mi rivedo su un campo verde.

Quelle divise tutte diverse e quelle espressioni tutte uguali degli amici.
Le espressioni degli idoli. I rituali.

Sistemarsi i calzettoni, le scarpe allacciate ‘da professionisti’, qualcuno con la fascia da ‘best player’ guadagnata in chissà quale scontro epico, e quello che si fa il segno della croce per tre volte.

Come quel tedesco del Bayern.

Che ne sanno questi giovanotti di quando giocavamo? Penso tra me e me.

Neanche il pallone ha più la stessa consistenza. Lo stesso profumo del cuoio consumato.

Del cuoio bagnato.

Gli scarpini vengono disegnati nella galleria del vento. Ai miei tempi i ‘fighi’ giocavano con le L.A.Trainer dell’adidas e prima di comprare dei ‘calzari’ seri, riuscii a fare secche due paia di Tobacco.

Che vecchio. Mi direi da solo. E me lo dico…

L’adrenalina…

Quella montava in motorino sulla salita della Nomentana e per le 2 della notte, a casa, non si era ancora messa a riposo.

Le stesse squadre. I soliti 10. E le partite che talvolta finivano zero a zero.

Difficile, ma poteva succedere. E se all’ultima azione dichiarata scappava il bomber al difensore, beh… il bomber finiva giù.

E pazienza. Senza risse o quasi.

In porta si ‘girava’ e io mi giravo anche per non prendere, da portiere, le pallonate in faccia.

Ero pessimo. E, suonando già da tempo la batteria, difendevo i polsi dalle saracche.

Poi, a dirla tutta, ero un attaccante.

Un turno in porta? Un affronto!

L’attaccante mancino.

‘Dai che quello c’ha un numero solo! Finta e scatta a sinistra!’.

Era vero. Però segnavo anche.

Soprattutto quando, dopo la pausa estiva, dimenticavano la mia finta caratteristica.
E poi sì, ti chiamavano ‘quello’. Con distacco. Anche i tuoi amici di sempre.

In campo si era in una bolla senza tempo e senza storia per sessanta difficilissimi minuti.
Ogni lunedì una battaglia a sè.

Per una guerra che si credeva sarebbe stata infinita.
Sono tre anni che vorrei tornare a giocare.

E me lo dico da sei.
E quando questo pensiero rapidissimo si esaurisce, contemporaneamente riaffiora il viso di un ragazzo.

Magro come non sono mai stato, una fascia nera nei capelli. Scarpini arancioni.
‘Scusi tanto…’

Vorrei tenerla quella palla. Anche solo per quel ‘lei’ invadente.
Ma invece…
‘Di nulla … Come va?’
‘Perdiamo e siamo in 10. Una giornataccia…!’

Si, una giornataccia.
Si gira. E ha la maglia di Immobile.

Un Laziale.

Sorrido.

Così penso che, come diceva lo splendido Darwin Pastorin, le partite, in fondo in fondo, non finiscono mai.