Conoscete “Lo strano caso di Benjamin Button”?
Qualche giorno fa leggevo un post su Facebook. Parlava di un libro in cui la scrittrice raccontava il suo “non essere una gatta morta”.
Il post mi ha portata a farmi una domanda alla Derek Zoolander “ E io? Chi sono?”. La risposta è arrivata come un fulmine al centro della testa.
Io sono Benjamin Button.
Il film racconta la storia di un uomo nato vecchio e morto in fasce, condannato o forse benedetto dalla sorte a vivere una vita al contrario. Sicuramente non dal punto di vista fisico, ma da quello caratteriale io sono come lui.
Sono nata vecchia.
Potranno confermarvelo i miei compagni di scuola che mi vedevano sempre sola, sempre da una parte, sempre distante. Una distanza percepita a volte come superbia; in realtà, ve lo dico in francese, mi cacavo sotto. Avevo una innata paura delle persone, del loro insindacabile terribile giudizio, del mio naso troppo grosso, delle mie battute incomprensibili. Ero un disastro sociale. Una vecchia. Una vecchia vestita come una vecchia, con le movenze di una vecchia e il linguaggio di una vecchia.
Il primo episodio di vecchiaia precoce che ricordo fu all’asilo. Tornai a casa con il faccino triste e dissi “mamma, un bambino mi ha dato uno schiaffo”. Mia madre, che è sempre stata una sveglia, mi rispose senza indugio: “E tu? Non glielo hai restituito?” La mia risposta fu scioccante. In quel momento ebbe il dubbio di aver partorito un genio o una scema. “Si vabbè!! Così non la finivamo più!”. Sicuramente ha partorito una pacifista.
Nel corso degli anni, non ho perso occasione per manifestare la mia vetustà. In seconda media ci diedero un opuscolo che conteneva una sfilza di libri tra cui scegliere. Non erano storie per ragazzi, piuttosto erano saggi, o proprio libri di testo, ma certamente non per la scuola media. Non ricordo bene i titoli, ma uno si chiamava tipo “lezioni di poesia”; ero entusiasta, ne scelsi una marea e mio padre, che sempre assecondava il mio interesse per tutto quanto avesse pagine, me li comprò.
Io non leggevo. Io costruivo dei film meravigliosi. Ero regista, scenografa, sceglievo il cast, i costumi, l’aspetto dei miei attori immaginari e anche le voci. Leggevo con lentezza perché dovevo intonare la voce, a volte mi scappava anche la mimica facciale, ma tanto mi importava poco perché avevo un sacco di tempo e una solitudine da riempire. La riempivo con le parole, con i sogni, con i film, con i libri.
Del resto una bambina, che era affascinata dall’Odissea e dal genio di Ulisse, la solitudine se la meritava tutta. Ci mancò poco che mi alzassi in una standing ovation quando, vedendo il film con Kirk Douglas insieme a mio padre, sentii Ulisse dire a Polifemo “Quando ti chiederanno chi ti ha fatto questo, tu dirai Nessuno!”. Lo so. Ho capito. Una vecchia di 11 anni.
In terza media scoprii “I Promessi Sposi”, e ovviamente la mia preadolescenziale beniamina fu lei, la monaca di Monza. Tuttavia non potevo tradire la mia anima del secolo scorso e quindi, invece di fare i riassunti, mi misi a fare le trasposizioni del testo. Praticamente studiavo i sinonimi di ogni parola e riscrivevo con parole differenti lo stesso testo. Venivano fuori dei riassunti di 20 pagine che riassunti non erano.
Non mi fraintendete, tra un paragrafo e l’altro saltavo sul letto ascoltando Madonna, e credo fosse quello che lasciava a mia madre quel barlume di speranza che sua figlia non era una completa “soggettona”.
Oggi si dice Nerd, ma vallo a spiegare a mia madre di 86 anni.
Con l’adolescenza arrivò la poesia. No. Lo sport ancora no. Io sono una sportiva dell’ultima ora. La poesia. Che momenti! Scrivevo poesie cariche di angoscia che perfino Giacomo Leopardi mi avrebbe detto “Ma non fare così! Dai! Tirati su!”. La tristezza però è stata un primo passo avanti. Ascoltare i Doors, vestire Vintage anni ’70 mi collocava ora in una nuova fascia sociale. La sconvolta alternativa. Gli anni dell’università sono stati dapprima un asintoto.
Quel momento in cui la vita al contrario si allinea alla vita normale, il momento in cui ti sembra di nuotare nella stessa direzione degli altri. Segui la corrente. Una novità dannatamente divertente dopo una vita in salita. È qui che comincia la discesa. È qui che comincia il divertimento. Dopo una vita di responsabilità, pesi e grandi dolori, arriva il momento di un liberatorio “macchemmefrega!”urlato a pieni polmoni.
Uscivo e stavo fuori fino a tardi o tutta la notte e la mattina andavo a dare esami, poi la laurea, poi il lavoro, poi vado a vivere da sola e tutto a un tratto ho 40 anni.
In preda ai miei fantasmi cardiopatici e ipocondriaci andai da un dottore. Un cardiologo. Senza colpo ferire mi disse una frase bellissima, mi diede una chance “Signora, a 40 anni le si prospetta davanti una seconda giovinezza, più bella della prima, più matura e consapevole. Non se la neghi”.
Fu così che mi iscrissi in palestra e salendo sul tapis roullant dissi al mio personal trainer “Tu sei pazzo! Io non correrò mai!”
Ogni volta che questa vecchia befana ha detto in vita sua “non lo farò mai” si è trovata a fare quello che mai avrebbe pensato. Ogni km percorso ringiovanivo di un anno, ogni 5k di cinque anni. Dopo la mia prima maratona sono tornata in fasce.
La scoperta della corsa è stata il mio ritorno all’infanzia, al piacere del gioco, della sorpresa agli amici, della convivialità. Il mondo che avevo lasciato ostinatamente fuori dalle mie giornate era un mondo sconosciuto e meraviglioso.
Le vite che vedevo al cinema o nei libri avevano tutto un altro sapore fuori dalla campana di vetro. Gli amici con cui dividere una corsa e una nuvoletta di ricotta e zucchero la domenica mattina sono diventati irrinunciabili. Gli sconosciuti che ti aiutano ad arrivare al traguardo sono la sorpresa della mattina di Natale.
La mia vita ha cominciato a colorarsi con tutte le tonalità di colore esistenti, ormai l’arcobaleno non mi basta più e mentre il mondo intorno a me, stanco di continue scoperte, invecchia ogni giorno di più, io, che sono nata vecchia, mi scopro a ringiovanire.
Oggi sono una bambina, domattina sarò una bambina felice che si allena per due ore di fila nel cuore di Roma.
Ludmilla Sanfelice