“Essere qui è già una vittoria” mi ha detto mia madre tutta emozionata pochi minuti fa, baciandomi la fronte.
Ti sbagli, mamān. Io sono un’atleta. L’unica vittoria per un’atleta è quella scritta rosso su nero sul display del cronometro. Non sono qui perché mi è stato concesso, sono qui perché ho lavorato duro e mi sono qualificata. Nessuno mi ha regalato niente, me lo sono guadagnato. Come le altre atlete, sono qui per battere il mio record e lottare per un posto sul podio. È per questo, mamān, che mi sto sfilando l’hijab, è per questo che mi stai guardando da qualche parte sugli spalti mentre mi tolgo la maglia a maniche lunghe davanti a tutti e mi appunto il pettorale sulla canotta. Non è un gesto di ribellione, mamān, io non voglio fare la rivoluzione. Io voglio solo correre.
Mentre lascio cadere l’hijab a bordo pista, sotto la canotta il battito del mio cuore si scompone. Faccio un passo in avanti verso la linea della partenza e chiudo gli occhi, non voglio vederli arrivare quando vengono a prendermi in due, uno per lato, e mi dicono che così non posso gareggiare. Passano due secondi, poi cinque, faccio qualche saltello per sciogliermi, sono passati otto secondi, riapro gli occhi mentre la telecamera sta facendo la sua carrellata dall’ugandese in ottava corsia alla belga accanto a me che saluta agitando entrambe le mani. Le mie spalle, le mie braccia e i miei capelli legati in una coda disordinata sono esposti agli occhi del mondo da più di mezzo minuto e ancora nessuno è venuto a fermarmi. La telecamera adesso punta al mio viso, abbasso lo sguardo e lo lascio scorrere sulla linea bianca che scappa via dritta lungo il tappeto color ruggine e poi si incurva a sinistra, assottigliandosi. Non guardo verso le transenne a bordo pista, potrei incontrare lo sguardo di Baba e trovarci dentro biasimo, vergogna o paura. Non posso guardarti adesso, Baba.
Quando mi alleno al campo con mio padre non posso chiamarlo Baba ma solo marbi. In mezzo alla fronte gli si formano due solchi profondi mentre impugna il cronometro e aspetta che mi posizioni accanto a mio fratello Arash. Ci siamo sempre allenati insieme, Arash ed io. Pronti sulla linea di partenza, ci pieghiamo entrambi in avanti. Quando Baba dà il via, Arash parte veloce, io mi stringo all’interno dietro di lui e pianto gli occhi in mezzo alla sua schiena dove la canotta è bagnata di sudore e gli si attacca alle vertebre. Baba dice che presto vuole prepararlo per la maratona, ha un corpo lungo e leggero e una mente di ferro, dice. Io invece non sono slanciata, ho le gambe forti e tornite come quelle di māmān bozorg-e Farnaz, la mia nonna materna. Māmān bozorg ama farmi vedere di nascosto le sue foto in minigonna di quando era giovane e dirmi orgogliosa “Vedi, Gazzy, le gambe le hai proprio prese da me!” Parla poco di quei tempi, la nonna, ma conserva fotografie e copertine di riviste che ritraggono un paese che io non ho mai visto. Un paese che non ho mai abitato.
Corriamo all’unisono, io e Arash, un piede davanti all’altro, duecentocinque passi ogni sessanta secondi, settantadue secondi per completare un giro. Quando torniamo a battere il piede sulla linea bianca, Baba schiaccia il tasto del cronometro, legge ad alta voce i secondi e i centesimi, ci sgrida per le braccia troppo rigide e il mento troppo alto. Mentre le nostre bocche spalancate cercano di ingollare ancora ossigeno, è già finito il minuto di recupero. Quando è il nostro marbi, Baba è inflessibile. “Se conti solo sul tuo talento, Ghazaleh, non arrivi da nessuna parte. L’atletica è soprattutto disciplina, costanza e forza di volontà.”
Sto pensando alle sue parole proprio nel momento in cui tutto lo stadio si zittisce. Il battito del mio cuore finalmente si calma. Il ronzio nella mia testa si spegne. Senza voltarmi, avverto nel silenzio la tensione delle ragazze accanto a me. Marie, alla mia destra, riassicura i capelli dentro l’elastico, la donna olandese di cui non so pronunciare il nome, alla mia sinistra, si guarda concentrata la punta delle scarpe. Tre minuti senza hijab e nessuno è arrivato dal bordo della pista per portarmi via. Mi lasciano correre. Non so cosa succederà dopo, ma oggi correrò.
Mi metto in posizione, piede destro avanti e sinistro dietro, spalle inclinate a centoquaranta gradi, braccia piegate. Ogni fibra del mio corpo è tesa, la mente è svuotata, sono una molla pronta a scattare. Lo sparo fa ripartire il respiro che mi si era fermato a metà della gola. Immagino Arash balzare davanti a me, balzo avanti a mia volta, lo inseguo, uniformo la cadenza dei miei passi alla sua che conosco a memoria. Ripasso la successione delle sue vertebre sotto il tessuto tecnico della maglietta. Arash, mio fratello. Arash, compagno di tutte le mie corse. Arash che non si è qualificato per gareggiare ma che si è allenato ogni giorno per aiutare me. Arash che ho cercato con lo sguardo in mezzo a tutta quella gente sugli spalti e che fissandomi negli occhi ha fatto sì con la sua testa mentre io scoprivo la mia. Arash che non ha paura e mi dice di non averne.
Alla fine dei primi cento metri sono a metà del gruppo. Perdo due posizioni cercando di guadagnare l’interno, sono terz’ultima. Davanti a me c’è Zelinda, la tedesca. “My name means victory”, mi ha detto ieri pomeriggio quando si è presentata, aspettando di fare il massaggio. Mi sono presentata anch’io ma non le ho detto che il mio nome vuol dire gazzella. Anche suo padre, come il mio, è stato un atleta mai entrato in nazionale e ha dato a sua figlia il nome e il destino del suo sogno irrealizzato. La sera ci siamo trovate vicine a cena, l’ho vista togliere la mollica al pane, vivisezionare il suo petto di pollo e mangiarne meno della metà.
Mi allargo a destra, allungo la falcata, la oltrepasso e mi ributto subito dentro. Sento i muscoli delle cosce tirare e il fiato accorciarsi, il sorpasso troppo improvviso mi è costato più sforzo del dovuto.
Non fare strappi! È Baba che mi sgrida da dentro la mia testa. Abbassa il mento, rilassa le spalle, lascia andare quelle braccia. Sei orgoglioso di me, Baba? Sono la figlia che volevi? Riuscirò a diventare l’atleta che sogno di essere e che sogni anche tu? Non ti ho chiesto se potevo togliere l’hijab, Baba. Sei arrabbiato? Mi hai sempre permesso di correre così al campo, senza il velo e con la maglietta a maniche corte. Però lì non c’è il pubblico, non c’è la televisione, non ci sono gli spalti traboccanti di spettatori. Ci arresteranno, Baba? Distruggeranno la nostra casa? Cosa ci succederà?
Pensa a correre adesso, dice Baba.
Ai duecento sono quinta ma il gruppo è ancora compatto, sento Zelinda ancora molto vicina dietro di me. Non prendo iniziative. Resto attaccata alle lunghissime treccine dell’atleta ugandese davanti a me, ma non è ancora il momento di tentare un attacco. Lo tenta lei, invece, sull’olandese in terza posizione, l’altra risponde allungando. Non mi faccio coinvolgere, resto sul mio passo, perdo terreno ma conservo le forze. L’ugandese ha la meglio al passaggio dei quattrocento, il suo sorpasso mi distrae e non guardo il cronometro. Il momento è adesso, dice ancora la voce di Baba, tra qualche metro sarà troppo tardi. Immagino di nuovo la schiena di Arash, vedo allungarsi la distanza tra me e lui e sento Baba urlare dall’altro lato del campo che devo stargli attaccata. Devo accelerare per riprenderlo. Arash, la mia lepre, la mia freccia luminosa, man barādar-am. Faccio un respiro profondissimo, raccolgo tutte le mie forze e spingo forte in avanti. Il top arancione della ragazza olandese si avvicina velocemente e in un attimo è già dietro, cercare di resistere al sorpasso di prima l’ha sfinita, anche Zelinda la supera.
A questo punto il gruppo si è sfaldato, sono quarta ad almeno venti metri dalla terza, Zelinda è dietro di me mentre le ultime tre si sono staccate. I muscoli mi bruciano, l’aria non mi basta. Sto correndo attraverso il fuoco, con le braccia nude e i capelli esposti. Proprio adesso, quando devo dare tutto, mi si riempiono gli occhi delle medaglie di Elnaz Rekabi buttate a terra in mezzo ai detriti della sua casa distrutta. Le ho viste in un video su Internet quando ero già qui. L’hanno costretta a dire che l’hijab non lo ha tolto di proposito, che le è scivolato durante la gara di arrampicata. E anche se l’ha detto, l’hanno punita lo stesso. Devo resistere. Devo insistere. Non posso arrendermi. Stringo i denti, spingo più forte che posso con le gambe e con le braccia e mi lancio al di là del fuoco. Guadagno due metri, cinque, sei, Zelinda si stacca. Sono gli ultimi cento metri, sono a un metro dall’ugandese. Lei avverte la mia accelerazione, aumenta il passo a sua volta, le sue gambe sottili si aprono in falcate lunghissime e veloci. L’etiope in seconda posizione non la sente nemmeno arrivare, un vento di treccine la oltrepassa e supera il traguardo, braccia alzate, medaglia d’argento.
Arrivo quarta battendo il mio record personale di due secondi e otto centesimi, a un secondo e undici centesimi dal record nazionale. Mi stendo per terra e divoro tutta l’aria che i polmoni mi chiedono. Per la prima volta mi giro verso le transenne. Vedo Baba, lo vedo ridere e piangere e lanciare i pugni in aria, la faccia paonazza sotto la barba, le lacrime che gli allagano gli occhi. Mi alzo, corro da lui, mi abbraccia troppo forte mentre non ho ancora finito di recuperare il fiato. Arash salta giù dagli spalti, mi prende la testa tra le mani, mi bacia i capelli.
Insieme a lui arrivi tu, mamān, con il sorriso più bello che ti abbia mai visto e lo sguardo fiero.
Lo stadio scompare, i rumori del mondo si spengono. Restano le vostre braccia a stringere le mie ancora nude, i miei capelli scarmigliati e i vostri cuori che non mi giudicano.
Resteremo così, qualunque cosa accada.
Questa, mamān, è una vittoria.
di Marzia Keller
Racconto vincitore del Premio Mimosa 2023 – 18^ edizione
“Donna, vita, libertà. Tributo alle donne mediorientali che sacrificano vita e gioventù in nome della libertà di tutte e tutti.”
Promosso dal Comune di Narni Assessorati alla Cultura e alle Pari Opportunità e l’Associazione Minerva Aps.