“ Tu mi hai sempre sorpreso. La prima volta ti avevo di spalle, a lungo guardavo la pelle che fuoriusciva dalla maglietta, il giallo della maglietta, il marrone chiaro delle braccia e dei gomiti, guardavo i gesti, mi piaceva immaginare la tua parte frontale, ho atteso prima di alzarmi, mi son goduta il momento come ho sempre fatto, ho cominciato a ipotizzare il colore degli occhi, la qualità dello sguardo, la forma delle labbra e del naso. Ogni tanto ero in grado di vedere la mano, quando si toccava i capelli, osservavo le dita e le unghie e tutte le parti avevano un’armonia col resto, un controllo e una misura che era impossibile staccarti gli occhi di dosso. Poi mi sono alzata, indossavo quella gonna blu che ti aveva colpito tanto, e non avrei potuto mai immaginare il tuo volto così pieno. E così vuoto. Eri vuoto d’amore, credimi, tu dici di no, ma eri un vuoto che non poteva sussurrarmi, oltre le parole, oltre le pieghe delle espressioni facciali, di prenderti. Me l’hai urlato. I tuoi occhi urlavano, non hanno fatto altro in tutti quei minuti in cui siamo stati zitti in mezzo a quel parco. Eravamo sotto un salice. Storditi. Adesso sono sorpresa e stordita allo stesso modo. E più vuota, io. L’ultima volta che ti vedrò sarai di spalle come la prima. Ti odio.”
BluRose ripiega il foglio, lo mette dentro una busta, scrive il destinatario, chiude la busta inumidendo con la lingua il dito per poi passarlo sui bordi per chiudere il tutto. L’atto di abbandonare la lettera dentro la buca delle lettere è l’ultimo gesto lucido che compie.
1.
Tessa non si aspettava i rumori.
Era pronta all’overdose di colori, al fiato spezzato, alla paura azzurra della sospensione, alla sensazione di immensità del cielo come uno schiaffo, anche al volo come a un tempo di pausa, come una parentesi in una frase, ma non ai rumori.
Ci sono urletti trattenuti, parole che volano da una mongolfiera all’altra, sospiri alti di meraviglia ed è anche difficile distinguere tutte le lingue che si accavallano. Tessa sente un gruppo di spagnoli che non finiscono di indicare i camini delle fate sotto di loro. Altri, probabilmente slavi, ancora più urlanti e sguaiati che alternano parole a risa. Cerca, come fa da dieci anni quando le viene un pensiero, lo sguardo di Warren. Lo guarda per capire se anche lui sta pensando la stessa cosa, se è infastidito o sorpreso, vicino nel moto d’animo, negli intenti e nel clima. Lo guarda prima di parlare, come ha sempre fatto. Ma lo sguardo di lui stavolta è un’anteprima di quel che sarà, o almeno lei la prende così. Perché non sta guardando nella sua direzione, le dà le spalle, le spalle a cui è stata aggrappata per tanto tempo, e non sembra sentire tutti questi rumori, rapito com’è dall’esperienza, talmente tanto da risultare assorto e fisso in un silenzio sovrumano, un silenzio inedito, che lei non ha mai captato come una sua peculiarità o una caratteristica. Intanto la invadono altre voci, sempre più fastidiose, tanto che rimpiange di non essersi portata delle cuffiette. Non l’aveva fatto, l’idea l’aveva solo sfiorata, per non sofisticare il momento, l’atteso e rinviato più e più volte volo all’alba nella Cappadocia fiabesca, più e più volte evocato e raccontato. Infine scelto, all’unisono, da lei e da Warren come ultimo atto, ultimo luogo, ultimo tempo.
Warren conta le mongolfiere nel cielo in questo momento. Oltre alla loro, ce ne sono altre nove. Con la mente ne assegna ognuna ad un camino delle fate, si gode lo stridore visivo tra il monocolore del suolo e delle sue danze dalle forme così strane, sì, gli sembrano proprio delle danze queste costruzioni di tufo piazzate a caso probabilmente dagli dei per un capriccio o, chissà, per una festa. Piramidi di terra con tante finestre e un cono rovesciato sulla sommità, altrettanto a caso, altrettanto a capriccio, che sembra un miracolo non cada. Warren alterna gli sguardi al suolo a quelli al cielo: verso l’alto, in linea col volo, verso il basso. E poi ancora: alto, in linea, basso. Più volte. Fino a sovrapporre mentalmente le dieci mongolfiere ad altrettante piramidi di terra. Si convince che starebbero benissimo ognuna in equilibrio sul vertice del cono e chissà quanto durerebbe quest’equilibrio. Se dieci secondi, dieci minuti o dieci anni quanto sono durati loro. Non sul vertice di un cono, ma in situazioni varie, su sfondi diversificati, uno accanto all’altra dai venti ai trenta. Si accorge che il suo campo visivo non è occupato da Tessa da un po’. Si volta e incrocia il suo sguardo. Le sembra che guardi lontano, alla ricerca di un orizzonte che si intravede tra le nuvole e il rosa che li sta circondando.
Come sarà? Come sarà? Come sarà?
Il risveglio, ad esempio. O il progetto di un viaggio. O chi prenderà il posto di lei nella comunicazione delle cose importanti? Ci si riuscirà subito a non farlo più? O ci si trascinerà in un chiaroscuro bambino di sentimenti in agonia? Un’inerzia, la più stupida delle inerzie, che sarà sempre più l’unica cosa viva e vissuta di questo rapporto? Saremo così stupidi? Saremo così intelligenti? Le guarda il collo. Quando lei lo faceva arrabbiare, o si allontanava, si concentrava sulle vene del collo, così diritte, così perfette, viatico dal volto al resto del corpo, al petto, al cuore. Una con un collo simile non può pensare davvero le cose sciocche che sta dicendo. Si sta sbagliando, guarda quant’è bella, guarda che vene, guarda che portamento assicura questo collo a tutta la figura. Guarda che misura ideale, sembra un corso pieno di persone e di negozi, di idee e di pensieri. La perdonava così. Tutte le volte che lo deludeva. Tutte le volte che si banalizzava. Anche adesso che non c’è più nulla da perdonare, nessuna delusione da allontanare, le sta guardando il collo e continua a trovarlo oggettivamente bello, sia lateralmente che di fronte. E anche dietro, specie adesso che ha i capelli legati. Tessa si gira improvvisamente e gli cerca lo sguardo. Lui si gira di nuovo, ha appena finito uno degli ultimi screening sul retro del suo collo. Vi si concentrava anche quando la prendeva da dietro e baciarlo, arrivare a leccarlo, lo eccitava più di indugiare su altre zone, anzi, chiudeva gli occhi e apriva la bocca, ci metteva la lingua e cercava un unisono con i movimenti ritmici del resto del corpo.
-Ma ti ricordi della pensione Luisa in Veneto? Dov’è che eravamo? A Portogruaro, mi sembra.
Tessa ha rotto il silenzio, le sembrava davvero troppo rispetto ai rumori che continua a sentire amplificati attorno a loro. La scusa di rendere palese un flusso di coscienza lontano nel tempo le sembra sufficiente a romperlo, a dirottare il momento.
Warren si gira verso di lei, come richiamato alla realtà dopo un lungo sogno:
-Mi ricordo il bagno. Turco.
-Turco? Era turco davvero?
-Più di questa terra. Ti puoi fidare. Tu non riuscivi in nessun modo e andavi in quello accanto alla reception. Se così possiamo chiamarla.
-Capirai, avrà anche chiuso.
-Probabilmente. Ma tanto non stavi pensando davvero a questo.
-In che senso?
-L’hai cercato come argomento possibile. Anche medio, anche banale.
-Beh, credo che entrambi stiamo pensando al passato, no?
-Sì. Ma anche al futuro.
-E comunque hai ragione. Non pensavo a questo. Stavo pensando che ci sono troppi rumori, in realtà. E che mi aspettavo invece un silenzio magistrale. Epico. Assoluto. E tu?
– No, io me l’aspettavo così. La gente è eccitata, tira fuori la voce, si sente lontana dal suolo. Normale si urli un po’.
-No, mi aspettavo più rispetto del momento. Meno sguaiataggine. E’ l’alba, siamo in cielo. Invece sembra di stare in una piazza nell’ora di punta. Mancano solo i clacson.
Warren la guarda e sorride. Ha sempre apprezzato il suo umorismo analogico, i voli e i sillogismi.
– Beh, qualche mongolfiera, guarda quella, ad esempio, conterrà almeno una dozzina di persone. Non sono tutti in duetto come noi. Non sono tutti così ricchi.
-Comunque volevo sapere a cosa stai pensando tu, non se anche tu ti aspettassi meno rumori.
-Ah. Io? Nulla, pensavo al tuo collo. Quello non sembra una piazza, sembra un corso.
– Di quale città?
Il volo parallelo: quello reale e quello delle idee che si stagliano da terra, che le hanno sempre stagliati un po’ da terra. Una comunicazione in quota.
-Di una città del Sud. Ma non troppo caotica. Solo molto molto calda. E piena di luci. Qualche lampione che non funziona, rettilinei più illuminati, manifesti sui muri. Attaccati con la colla.
-Con la colla a caldo?
-No. Penso sia impossibile. A meno che non sia calda per il caldo che fa. Così, di suo.
Ridono. Sembra di stare senza pensieri, senza direzioni. Sembra di stare senza le parole delle ultime settimane. Sembra di stare senza il copione del “lasciamoci senza traumi, non abbiamo più niente da dirci, certo che rimarremo amici ma magari tra qualche tempo, comunque lasciamoci, non senti che noia, non senti che piattezza?”.
E anche il senso di colpa, subito dopo. Per questa leggerezza, per questo clima senza dramma ( ma non è che il dramma arriverà domani, intero intero? ). Forse anche per questa decisione di chiudere dieci anni con questo volo. Chi l’ha presa la decisione? Da chi è partita l’idea?
-Guarda quanto starebbe bene la mongolfiera blu e arancione se atterrasse su quella piramide lì, quella a destra, oltre quel gruppo di tre.
-Incredibile, l’ho pensato tre minuti fa.
-Prima del collo?
-Sì, subito prima.
Le ultime parole prima di tenere la bocca spalancata per quel che vedono: la mongolfiera tutta dorata, quella con il gruppo più grande, saranno almeno sei, pilota compreso, la donna che prima del decollo aveva dato le istruzioni a tutti, si allontana dal gruppo e perde quota in modo troppo veloce. A Warren sembra di intercettare lo sguardo incredulo della donna mentre precipita, in una frazione di secondo, gli sembra che riesca a fissarlo. Adesso i rumori fanno davvero paura e le voci del gruppo dentro la mongolfiera d’oro sovrastano tutto il resto, sembra un’unica eco di pochi istanti, in una lingua mista dove il tono trova un senso univoco di terrore che va ben oltre la differenza di lingua, ci si capisce benissimo, e poi il tonfo sul suolo, altrettanto veloce, secco, seguito da altre voci e da altre urla, eppure isolato, riconoscibile, sovrastante.
Sembra una beffa continuare a volare. Uno scherzo cinematografico, un andamento irreale per quanto è lento, per quanto non è possibile andare a soccorrere, andare a vedere, andare a capire. Da terra però in pochi secondi giungono in tanti. L’alba stava per terminare, nei retropensieri di ognuno si affaccia l’idea che meglio adesso che dieci minuti fa, quando il volo è cominciato per tutti.
Adesso le lingue diventano davvero incomprensibili. Gli occhi di Warren e Tessa sono fissati su quel che rimane della mongolfiera caduta a picco, su chi riesce ad uscire con le proprie gambe, su chi, da così lontano, sembra comunque immobile, su chi urla dal dolore e su chi piange. Warren carrella anche sulle altre mongolfiere ancora in quota come la loro, in un momento sospeso e ridicolo come questo, dove il tempo della meraviglia e del turismo diventa subito iniquo e antietico, impercorribile. Svuotato di ogni significato, come una grande ipocrisia che ha tenuto per secoli e che viene smascherata all’improvviso.
In varie lingue, gli altoparlanti del centro da cui sono partite le dieci mongolfiere ripetono lo stesso messaggio: l’escursione aerea termina anzitempo a causa di un incidente accorso a uno dei velivoli, si pregano i passeggeri di guidare velocemente verso la base del centro.
– E’ la mongolfiera dell’istruttrice.
Tessa ha rotto un altro silenzio che sembrava impossibile crepare.
Warren prende il cannocchiale e si sporge dal parapetto del velivolo per scorgere meglio
– Stai attento!!
-Non so se è lei.
– La mongolfiera è quella. Fa’ vedere a me.
– Tieni
– Sì, lei aveva una tuta rossa ma da qui non riesco a capire se…
– Non si capisce nemmeno… vabbe’, dai, vediamo di tornare alla base in fretta.
I rumori attorno si quietano, i movimenti si fanno più veloci. Le nove mongolfiere, come in una danza aerea, si avvicinano progressivamente alla base. Un balletto che deve terminare in tempo, come se il teatro stesse per chiudere, e con un crescendo, un accelerato sincronizzato che diventa più spettacolare del paesaggio stesso. Ma nessuno lo sta guardando, non ci sono spettatori possibili, tutta l’attenzione è sul velivolo che è come se si fosse ripiegato su sé stesso appoggiandosi sulla sommità del camino delle fate e sui bordi del cono rovesciato. Il vociare ora si quieta ora si rianima, ma il punto di udito di Warren e Tessa varia al variare del vento, che li sta sospingendo più velocemente adesso, e all’allontanarsi dal punto dell’incidente. Adesso è importante tornare alla base, i loro sguardi non si sforzano più di capire cosa sia realmente accaduto, si sono come arresi ad una certa ineluttabilità, nell’aria da giorni, da settimane, che li riguarda da vicino, da vicinissimo.
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