Accompagnare una figlia nella sua prima maratona

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Papà Tommaso e sua figlia Martina al traguardo di Firenze

A volte ci sono delle corse che assumono un valore soggettivo, diverso rispetto al loro valore oggettivo.

Sono quelle corse che creano stati d’animo e sensazioni che esulano dallo sport, anche se a questo sono direttamente collegate e rientrano tra le buone consuetudini ricollegabili al meccanismo #dipadreinfiglia.

Ho già avuto modo di raccontare la prima mezza maratona corsa interamente con mia figlia, ma la maratona, la “regina”, presenta un sapore ed un valore diverso.

È un viaggio lungo 42195 metri, nel quale può succedere di tutto e, per quanto si possa essere preparati mentalmente e fisicamente, l’imponderabile è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando ci si confronta con il cosiddetto “muro” a ridosso del 32/33 km.

Un limite che i runner più o meno evoluti lo conoscono bene.

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Non tutti, però, possono sapere quali siano le emozioni nel correre la prima maratona con un figlio. Innanzitutto, bisogna essere molto fortunati, soprattutto quando l’incrocio è padre/figlia, perché i punti di contatto negli interessi personali sono oggettivamente pochi.

Una figlia che ha praticato, per anni, nuoto agonistico, difficilmente riesce ad incontrarsi, sportivamente parlando, con un padre appassionato di calcio.

La congiuntura avviene miracolosamente con la corsa, e con uno dei pochi effetti positivi lasciati da 2 anni di pandemia: che più persone praticano il running.

Il progetto fin dall’inizio, per Martina, è quello di correre una maratona, ed è per questo che ha iniziato a venire con me. Io, rispetto a questa sua volontà, mi sono trasformato in una sorta di “prezzemolo”, sempre presente, approfittando del fatto che ho la possibilità di condividere con lei una passione.

Abbiamo corso 10k, 21k, anche internazionali, ma non siamo mai riusciti ad andare insieme in una maratona.

È qui che entrano le emozioni a tutti i livelli, la mia consapevolezza che ci sono molte incognite (cederà al 30/32km o riuscirà ad arrivare in fondo senza problemi?), la sua paura di non sapere cosa l’aspetta oltre la distanza, ben rodata, dei 21k.

La strategia è correre ad un passo di 5:55 al km. Rimanere lenti per essere certi di arrivare in fondo. Sappiamo che la giornata è fredda ma con il sole. Ci presentiamo alla partenza copertissimi e con 2 tute da pittore che vogliono sfatare il fatto che è la prima maratona. Lei ha scritto sulle spalle “la mia 1 maratona”; io, invece, “io vado con lei”.

Il braccialetto di Max fino al 21k viene rispettato, dobbiamo passare a 2:04. Ma è da adesso che cominciano le incognite.

È dal ristoro del 30km che cominciano i problemi. Stiamo girando attorno allo stadio Artemio Franchi e Martina comincia ad avere i primi cedimenti.

“Papà, le gambe non ce la fanno più, ed ho i crampi allo stomaco”.

Poco dopo mi sembra di vivere un “déjà vu”.

Martina si comincia a comportare come quando aveva 5/6 anni, comincia a piangere mentre corre, ripetendo in maniera ossessiva “non ce la faccio più, mi fa male la pancia”.

È tanto che non la sento piangere e non riesco a trovare le giuste parole o motivazioni per farla tornare a correre.

Provo di tutto: “non ti preoccupare camminiamo fino al traguardo”, “se vuoi ci ritiriamo”, “ci fermiamo e aspettiamo che tu stia meglio”.

L’unica risposta ricevuta è “stai zitto, lasciami perdere, tu non capisci!”, “ma si, io ti capisco”, “no, non mi puoi capire!”, lo show è iniziato.

Provo a farle capire che la maratona non è una passeggiata di salute e che bisogna essere predisposti al sacrificio e che, comunque, arrivando al traguardo, compie un’importante azione di autostima.

Non tutti i ragazzi della sua età in Italia corrono maratone, non sanno quanto sia complicato e che lei deve essere orgogliosa di sé stessa. Scatta la molla, perché decide di fare il cavalcavia del 35 km correndo (dove la maggior parte di quelli intorno a noi cammina!) e continuiamo così fino al 38km. Poi di nuovo il blocco, il rifiuto di correre e torna all’atteggiamento del 32km. Passiamo vicino alla partenza e l’illusione di essere arrivati è una delusione troppo forte.

Adesso il ritornello è “quanto manca?”. Le dico che siamo al 38, “no, no, voglio sapere quanto dice il tuo Garmin”, come se lei non avesse il suo. Siamo al 38,45, al 38,60 e via dicendo, finché non vediamo il cartello del 40km.

Sembra che ci sia un nuovo sblocco mentale, le dico “da adesso si corre fino alla fine e non ti voglio più sentire frignare”. Comincia un bombardato motivazionale, “lo senti l’odore del traguardo?”. “A Piazza della Signoria giriamo a sinistra e dopo 500 metri siamo arrivati”.

Poi, mi pare che siano entrati dei moscerini negli occhi, che cominciano a lacrimare.

No, in realtà sto proprio piangendo e non per i moscerini.

Mi accorgo di essere emozionato (lo sono anche mentre scrivo questa parte). Le dico: “Martina sto piangendo”, lei mi chiede “perché?”. “Come perché. Ce l’hai fatta, in fondo, dopo la curva, c’è il traguardo. Dal cartello del 42km ti voglio vedere ridere perché avrai chiuso la tua prima Maratona”.

Giriamo la curva il traguardo è lì, 195 metri ancora, le prendo la mano e la alzo, lei ride, io piango. Siamo arrivati.

Passato il traguardo: “papà mai più, ma più. Non correrò mai più una Maratona”. Anche qui mi sembra di vivere un “déjà vu”.

A 5 anni disse la stessa cosa dopo aver fatto la riviera dei Corsari a Disneyland. L’anno successivo l’abbiamo fatta 3 volte di seguito.

Dopo 4 ore, sul treno, dopo il pisolino ristoratore: “papà, ho sognato la medaglia, qual è la prossima maratona?”

Tommaso Empler