Correre nel deserto del Wadi Rum non è semplicemente correre: è un altro sport.
Sarebbe come dire che il padel sia uguale al tennis.
Affrontare 21 chilometri di sabbia, con la stessa consistenza della spiaggia che frequentate d’estate, ma secca, instabile, dove ogni passo sprofonda, è un esercizio fisico e mentale totalmente diverso. Ogni appoggio è incerto, ogni cambio di direzione deve fare i conti con buche, avvallamenti, sabbia che cede e uno sguardo costantemente alla ricerca dell’equilibrio.
La partenza alle 19:30 ci ha regalato almeno un’ora e mezza di luce, poi il buio. Ma non un buio qualunque: il buio totale, quello che noi, abitanti delle città, non conosciamo più da tempo. Un buio puro, dove il cielo torna a mostrarsi in tutta la sua vastità. Qui hai tutto: il silenzio assoluto, l’aria che cambia temperatura con il passare delle ore, e un cielo stellato che ti riempie gli occhi — come i colori del tramonto che si susseguono in una tavolozza che sembra dipinta a mano.
Il gruppo di runner partiti con noi da Roma fa parte dell’Atletica Sabaudia, un insieme di amici e appassionati. Grazie all’amico Antonello Cipullo, profondo conoscitore della Giordania, è nato un tour che tocca luoghi iconici, pensato su misura. Abbiamo corso seguendo il passo del più lento: sempre insieme, sempre uniti. Ci siamo fatti compagnia, ci siamo aiutati, abbiamo riso.
Correre nel deserto è esattamente come lo descrive Marco Olmo ne Il grande vuoto.
Correre qui, dove il silenzio, gli orizzonti infiniti e l’assenza di ogni certezza quotidiana diventano linfa vitale, è rispondere a un bisogno primordiale: cercare una traccia, un filo, due punti da unire.
Infine, è rincuorante sapere che l’essere umano possa sopportare tanta fatica, e anzi, trovare vita dentro questa fatica. Credere ancora possibile abitare un nuovo deserto, un altro grande vuoto — capace però di riempirti l’anima e il cuore.