Parafrasando l’autore francese Daniel Pennac, possiamo dire che il verbo “correre” non tollera l’imperativo, un’avversione che condivide con altri verbi altrettanto potenti: “amare”, “sognare”. Certo, si può sempre tentare: “Corri!”; “Forza, vai a correre, diamine!”; “Domani all’alba esci in strada e corri!”.
Il risultato? Niente. Chi si sente forzato in questo imperativo, probabilmente si riaddormenta.
Correre non è un dovere, e non voler correre è un diritto sacrosanto. La determinazione e la tenacia di una persona si esprimono in molteplici forme. La corsa è una di queste, ma non è l’unica moneta con cui si misura la forza di volontà.
La ripetitività di un gesto come la corsa rischia di spegnere ogni slancio se diventa un’azione priva di significato personale.
Si corre il rischio di attraversare quel fiume endorfinico, generato dalla corsa, e trovarsi dall’altra parte, in una deriva di immobilità statica, dove nulla sembra più avanzare. Ma chi può davvero decidere cosa è giusto o sbagliato? Chi può stabilire se sia meglio assecondare questa deriva o inseguire il miraggio della corsa infinita?
Esistono persone perfettamente felici che vivono a migliaia di chilometri da ogni tipo di attività fisica.
Non cercano il prossimo allenamento, non sognano una gara da conquistare, non vedono alcuna gloria in una medaglia appesa al collo.
Eppure, vivono vite piene, soddisfatte della loro quiete, convinte che il divano sia la scelta ideale per concludere la giornata in pace e serenità. Perché, in fondo, correre non è la panacea di tutti i mali interiori.
Il gesto ripetitivo della corsa dovrebbe essere, nella sua essenza, una forma di espressione di libertà, un’emancipazione del corpo e della mente.
Questo lo si ottiene soltanto esercitando il diritto autonomo di correre quando vogliamo, non quando dobbiamo. Che sia una volta l’anno, una notte al mese, o per un giorno intero, non importa: in quel singolo momento di corsa, siamo sicuri che non rimarremo mai delusi.
Buone corse (senza imperativo)