Andrea Accorsi e il nuovo romanzo nato grazie alla rivoluzione del camminare

Andrea Accorsi ama l’endurance, lo sport di resistenza. Ha corso per ore, giorni, settimane accanto alla sua compagna Monica Barchetti. Ha pedalato quando la corsa era diventata sofferenza per gli infortuni.

Ha raccontato cosa è la fatica, la fatica prolungata, lo ha fatto sui giornali di settore e sulle pagine dei suoi social commenta l’esibizione del dolore, il superamento della soglia, elementi che in qualche modo hanno una diretta connessione con la ricerca.

In questo periodo sta vivendo la Rivoluzione del Camminare come un viaggio verso l’essenziale.

In un mondo che sembra accelerare ogni giorno di più, c’è chi decide di rallentare, chi trova rifugio in un gesto tanto semplice quanto antico: camminare.

Per molti, camminare è solo un mezzo per spostarsi, un’attività che la frenesia della vita moderna ha relegato a perdita di tempo. Ma per alcuni, è una rivoluzione silenziosa, una pratica che ricollega l’uomo al suo io più profondo e alla natura circostante.

Ci sono giorni in cui avverto l’asfissia di una società chiusa in se stessa e talvolta disperata,” scrive un Andrea che, come tanti, ha trovato nel cammino la via per la propria rinascita.

Andrea e Monica Barchetti

Il semplice atto di mettere un piede davanti all’altro diventa un rituale che risveglia l’essenza più intima di chi lo pratica. Camminare è respirare, dice, un gesto naturale e ancestrale, quasi dimenticato, ma che può riportare equilibrio e consapevolezza.

L’esperienza del camminare è anche circolare, un continuo ritorno all’inizio. “La fine diventa l’inizio e l’inizio torna ad essere la fine.”  Ogni passo, ogni fatica, diventa occasione di crescita personale, di introspezione, di confronto con sé stessi.

Ma più di tutto, camminare diventa uno strumento per riscoprire il silenzio, una condizione che sembra sempre più rara. “Camminare mette in moto le mie riflessioni più profonde, intime, e mi permette di scrivere in silenzio le pagine più vere.”

Camminare, dunque, non è solo un gesto fisico, ma un atto di ribellione che ci insegna a vivere con meno, e che ci permette di ritornare a noi stessi, passo dopo passo. Un viaggio che, se intrapreso con il giusto spirito, ci trasforma profondamente.

Da questo sentire che è nato il bisogni di raccontare la storia (vera) di Syed, narrata nel suo ultimo romanzo – “Nel nome del Pane”- Minerva editore.

Syed vive con la sua famiglia nella periferia di Islamabad. Ha diciotto anni. Una notte come tante viene svegliato dal rumore di colpi che battono sulla porta di casa. C’è un uomo armato, ha la divisa dell’intelligence pakistana, l’Isi.

Impiega solo un istante a prendere l’unica decisione possibile: raduna alla rinfusa un po’ di roba nel suo zaino e si butta dalla finestra sul lato opposto della strada. Un salto da sei metri.

Nel mondo in frantumi che affronterà durante gli anni vissuti in viaggio, in fuga come clandestino, ha smesso di sognare, aggrappandosi solo alla vita quotidiana come un atto sovversivo e, quando c’era, a un pezzo di pane. Ha assaporato quel sentore di una vita allo scoperto, l’ordine e l’umiltà di chi è in fuga senza sentirsi in colpa.

Seicentoquindici giorni e seicentoquindici notti per attraversare la rotta dei Balcani a piedi, per arrivare nel forno di Piero, in una Bologna che diventa la nuova terra di tutti. Nella scoperta e nel lento assaggio di questa vita così essenziale, nucleo puro, scollata dai sogni e dai ricordi maledetti di un viaggio duro come la pietra.

Sarà la mollica del pane ad ammorbidire le loro esistenze, il lievito a farle crescere, la farina a mescolare.

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Nelle riflessioni di Andrea emerge il valore della lentezza. In un mondo dominato dalla velocità e dall’efficienza, la lentezza può sembrare rivoluzionaria. Camminare è un modo per riprendersi il proprio tempo e i propri spazi, un ritorno a uno stile di vita più “a misura d’uomo”.

Il cammino diventa così un percorso di trasformazione. “Mettermi in cammino è dare vita ad una nuova persona dentro di me,” scrive Andrea, sottolineando come ogni passo sia un viaggio di meraviglia, capace di arricchire l’anima.

Lo zaino, simbolo del cammino, non è solo un oggetto fisico, ma una metafora delle preoccupazioni e dei pesi che portiamo con noi. “Lo zaino deve contenere solo ciò che serve,” ci ricorda, un invito a semplificare, a concentrarsi sull’essenziale, lasciando andare ciò che è superfluo.

 

 

Marco Raffaelli
Appassionato dello sport e di tutte le storie ad esso legate. Maratoneta ormai in pensione continua a correre nuotare pedalare parlare e scrivere spesso il tutto in ordine sparso