È successo di nuovo che il calcio ha deciso ciò che un altro sport può e non può fare.
“Questione di ordine pubblico” ha detto la Prefettura, di fatto non concedendo l’accesso ai partecipanti di AlbaRace per le fasi finali di corsa e di arrivo all’interno dello Stadio Olimpico.
Di conseguenza 2000 persone dovranno cambiare strada.
“In sostanza non siete niente rispetto a una finale di Coppa, siete pochi e poi la gara non è una gara, solo un momento di svago per gente che corre sempre a quell’ora”.
Parole che ormai conosciamo benissimo e che non sono una novità nel panorama della Capitale, uno sfondo che è una regola quotidiana.
A Roma credi di poter stabilire cosa fare e con quale strada o mezzo spostarti, poi c’è Roma stessa che decide per te.
“Questo è il prezzo di vivere in una città senza confini” starete pensando.
In parte è vero e vorremmo che lo fosse per ciò che conta, per quanto ci può far stare bene, per le possibilità, le scelte virtuose, gli strumenti che fanno evolvere la comunità stessa.
Ma purtroppo non è così.
Quanto è successo ieri all’AlbaRace è un esempio, piccolo ma calzante, dello stato di cose a cui ogni giorno dobbiamo assistere.
Un organizzatore crea un evento e, senza alcuna volontà collaborativa, le autorità o altre federazioni più influenti impongono il loro di evento.
Come è avvenuto per la Maratona di Roma e la concomitanza del derby inserito in calendario dopo che la data della corsa era stata già stabilita, il che ha condizionato il lavoro di altri e le scelte operative di tutti.
Il calcio è la seconda industria del paese, crea opportunità, lavoro, è lo sport più seguito da sempre.
Il corollario a margine della nostra vita da spettatori e cittadini giallo rossi o banco azzurri lo conosciamo benissimo e lo abbiamo rispettato ogni santa domenica e in parte subíto.
Quando intere aree della città sono ostaggio di una viabilità tossica imposta dalle partite all’Olimpico, di comportamenti assunti da tifosi ospiti o gruppi organizzati fuori dalle regole della sana convivenza che non aiutano nessuno.
Lo possiamo dire che ci siamo rotti le palle? O va contro la religione a due colori che da sempre è al centrocampo e che nessuno si può permettere di sfiorare?
Ciò che vorremmo è una strategia collaborativa che faccia lavorare bene chi investe risorse e tempo negli eventi e che non limiti la vita di molti per le scelte di pochi.
Chi va a vedere una partita è nulla rispetto a chi vive una città.
Vorremmo che le autorità fossero lungimiranti, che la decisione di aprire uno stadio per far “vedere” una partita che si svolge a 1200 km di distanza sia presa e comunicata coordinando ogni realtà, senza prendere decisioni dall’oggi al domani.
Lo sport è un vettore di scelte, di partecipazione e democrazia, se non riusciamo a renderlo tale sarà ancora più difficile azionare gli stessi principi in aree che hanno più influenza sul sistema che ci governa.
Buona Albarace a tutti, comunque.