Non l’ho mai capito cosa vi possa piacere nel correre, nel provare piacere soffrendo. Cosa vi piace di tutto quel faticare stando ore sulla strada, per altro da soli.
Cosa c’è che non va in me? O cosa c’è che non va in voi?
Dove stanno le nostre vie di mezzo?
Chi è stato a metterci sulle rive opposte di un fiume che ci separa, che ci pone l’uno davanti all’altro, come in uno specchio da cui ciascuno vede riflesso un sé diverso.
Non riesco a scrollarmi di dosso quella mia indolenza per cui dormire è il mio momento di felicità, mentre voi siete già da ore in strada a perdere ogni goccia di energia. Mangiare, bere e fare tardi è l’unico passatempo che mi soddisfi.
Come fate a stare sempre in forma, a non ingrassare a dedicare del tempo solo a voi stessi facendo sport per ore e ore. Come fate a essere così metodici, razionali, intrinsecamente rivolti verso un futuro dove sarete più giovani di oggi, più belli di oggi e sempre con il sorriso negli occhi.
Nel vostro contraltare a quell’immagine di piccole divinità greche c’è ben altro e lo nascondete per non dover pagare un prezzo troppo alto negli a venire.
Il vostro stato alterato di felicità indotta da un processo endorfinico tanto bello quanto effimero ha la sua valuta che si scambia sul mercato del dolore fisico, inondato dai litri di sudore che vi accende il volto e lo trasfigura. Dai muscoli che chiedono perdono, da polmoni annebbiati da un’afasia verso la loro stessa funzione naturale.
Non averne mai abbastanza, non essere mai soddisfatti di nulla, del tempo, della distanza, del traguardo appena superato, del dover andare alla ricerca di nuove fatiche, di nuovi momenti di alterazione dell’orizzonte grazie a un lavoro estremo che vi accelera i battiti cardiaci fino a non poterne più, ma ciò nonostante siete lì che state per morire fino a risorgere a nuova vita.
Tornare a casa con i piedi gonfi di dolore, con le vesciche aperte e le unghie nere. La pelle abrasa tra le gambe da troppi chilometri su strade assolate.
La sensazione di spossamento che vi rende dei mostri isolati dal resto delle gente quando la stanchezza si è portata via il piacere di sorridere.
Io vi vedo in metro con lo sguardo perso del lunedì mattina che non vi alzate perché le gambe chiedono perdono, implorano un riposo meritato per poter ricostruire le fibre strappate dalle troppe salite della domenica.
Silenziosi e pensanti ve ne state in un angolo incapaci di condividere le vostre riflessioni con altri che non sono come voi. Misantropi da un processo astenico, come conseguenza di uno stato di debolezza generale dovuto alla perdita della forza, immancabilmente incapaci di reagire agli stimoli.
Non si esce, non si parte, non si fa tardi, non si apre il mondo ad altri che non sono sul vostro mondo, che non sono come voi.
Io vi guardo e provo compassione, anche se in parte vi capisco, sento la vostra fame di fatica. Me la fate arrivare quando cercate il mio sguardo dal ciglio della strada al 38° km della maratona.
Sento il vostro odore che è cambiato, in una reazione chimica figlia di un processo entropico naturale che vi ha reso elementi di un sistema perfetto e in continua evoluzione abitato da nemici della pigrizia.
Io vi vedo e in parte in voi mi riconosco, anche stando dall’altra parte della strada, perché anche se siamo separati siamo nel contempo vicini.
Dopo tanto anni so di conoscervi e sono in grado di riconoscervi tra milioni di esseri umani e non sapete quanto mi faccia bene.
Oggi ho capito che siamo nemici e che non vi posso sconfiggere, ma posso essere amico vostro, certo che quella distanza tra noi si assottiglierà a tal punto che se mi chiederete di correre, farò quel passo che ho sempre odiato, ma che in fondo è naturale, come il fiume che ci ha tenuto distanti per troppo tempo.