In un articolo del Guardian pubblicato ad aprile si analizza lo studio fatto da Lloyds Bank (UK) sugli effetti economici della guerra in Ucraina verso i suoi clienti.
La conseguente inflazione che sta erodendo il potere di acquisto dei salari nel paese è ovviamente sintomatica di cosa stia accadendo all’intero continente europeo.
Lloyds afferma che i clienti stanno riducendo il consumo di molti beni voluttuari tra cui gli abbonamenti alle palestre.
In Italia l’Istat ha comunicato che nel mese di marzo 2022 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività ha registrato un aumento dell’1,2% su base mensile e una crescita del 6,7% su base annua (dal +5,7% del mese precedente).
D’altronde ce ne accorgiamo quotidianamente: la spesa di beni di prima necessità è stata rivista come non succedeva da anni, di conseguenza le prospettive “incerte” dell’economia ha costretto a ridurre anche da noi l’acquisto di beni non necessari, ma diretti alla soddisfazione di particolari esigenze materiali.
Cosa sta succedendo sul mercato del running?
Si dice da sempre che correre è uno sport con poche pretese. Un paio di scarpe, un parco sotto casa e tanta voglia di faticare.
Ma è davvero ancora così? Parliamo realmente della passione sportiva più economica? Probabilmente nella sua versione “minimal” sì. Ma se facciamo i conti in tasca ad un podista medio, molti luoghi comuni iniziano a vacillare.
Oggi come è la situazione del mercato?
Dopo la lunga pausa da Covid siamo ancora pronti a spendere gli stessi soldi che impegnavamo nel 2016?
Sei anni fa, in un’analisi fatta da Repubblica nella sezione Running, risultava che un podista amatore per correre e stare in forma spendeva tra gare, trasferte, costi fissi, spese mediche, materiale sportivo un totale di circa 2050 euro l’anno, ovvero 170 euro al mese.
Alla luce delle tante incertezze all’orizzonte, dell’azione corrosiva dell’inflazione e di un bisogno di qualità sul mercato podistico, come sarà il prossimo semestre?
Per quanto riguarda il futuro dell’industria delle scarpe da corsa, Brooks, il marchio di scarpe di proprietà del colosso Berkshire Hathaway, ha recentemente registrato un fatturato in crescita del 31% rispetto al 2021.
Il CEO, Jim Weber è quasi certo che ci sia molto da aspettarsi. “Oggi ci sono 150 milioni di persone che corrono in tutto il mondo”, ha detto. “Pensiamo che potrebbe letteralmente raddoppiare nei prossimi 10 anni”
A conferma di questa visione c’è la relazione dell’ufficio studi di Mediobanca sui grandi gruppi mondiali della moda.
Nel 2020, i 70 principali gruppi mondiali hanno registrato ricavi aggregati per 379 miliardi di euro (in calo 13,8% sul 2019 e +4,9% sul 2016. Vale la pena notare che l’industria della moda ha registrato un calo delle vendite nette maggiore rispetto al resto della produzione globale nel 2020 (le prime -13,8%, le seconde -4,1%).
La pandemia ha riportato l’industria della moda indietro di tre anni, ai livelli di fatturato del 2017.
Più della metà dei ricavi aggregati (55%) sono generati dai gruppi europei, il che evidenzia il ruolo di leadership del vecchio continente nel settore della moda. La ripartizione del fatturato vede l’Europa seguita da Nord America (34%), Asia (9%) e Africa (2%).
L’Italia, con sette gruppi di moda, è il Paese europeo più rappresentato; al contrario, in termini di ricavi, la Francia è comodamente il leader, con una quota del 38% di vendite nette in Europa nel 2020, seguita da Germania (14%), Spagna e Regno Unito (10%).
A leggere questi numeri non crediamo che la corsa subirà una flessione nel senso generale, anzi, probabilmente ci saranno meno corsi di nuoto, meno iscrizioni in palestra ma più corse all’aperto e le scarpe da running dureranno qualche chilometro in più rispetto all’obsolescenza programmata dalle case di produzione.