La temperatura non era delle migliori, l’afa rendeva l’aria davvero pesante. Si respirava a fatica. Mancavano poche settimane alla mia prima edizione della Lavaredo Ultra Trail e non stavo più nella pelle.
Iniziava tutto a ruotare intorno a quell’evento, dalle chiacchierate con gli amici e colleghi ai pasti. Avevo impiegato quasi 9 mesi per preparare la competizione ed ormai eravamo quasi alla partenza.
La mattina guardando il mio riflesso nello specchio percepivo una forza come stessi allenandomi da una vita intera. Esco di casa un paio d’ore dopo cena, rigorosamente a base di carboidrati e qualche proteina, nonostante sia estate ed abbia cenato relativamente presto, è già buio ma il percorso che ho in mente è perfetto per il tipo di seduta che mi aspetta oggi, lontano da tutti e da tutto.
Allaccio salde le scarpe, stringo la fascia in testa ed il Garmin aggancia subito il segnale: posso correre!
I chilometri mi scivolano sotto le gambe, allora fin troppo leggere. Tutto d’un tratto imbocco una stradina molto stretta, non c’è luce, congiunge alla zona portuale della mia città.
Penso al buio che incontrerò in gara, al buio che spesso ho dentro di me e mi fa perdere il passo.
I pensieri svaniscono di colpo quando vedo due fari che corrono verso la mia direzione, più veloci di me, sono vestita di scuro: non mi vede. Non ho spazio per uscirne, sono in trappola.
In quei pochi secondi che mi separano dal veicolo riesco a pensare a tutti i sacrifici fatti, alle rinunce, alle decisioni ed alle parole non dette, di lì a poco tutto sarebbe finito.
Il tempo di chiudere gli occhi, l’auto e a pochi centimetri da me…lancio un grido disperato e mi lascio andare.
Ore 3.10 am
Mi sveglio di soprassalto. È il giorno della gara e devo fare colazione. Resto qualche minuto stringendo le lenzuola pensando al raccapricciante incubo appena fatto.
Adesso posso sorridere, adesso posso fare la mia gara. Non esiste auto, demone o pioggia che ci possa travolgere nei sogni. Voglio solo correre nella realtà e non cadere più.
Filippo Carlon