Sono iniziate le Paralimpiadi e, come era prevedibile, le stanno guardando in pochi.
In rete poche notizie.
Perché, diciamoci la verità, non li consideriamo veri atleti, non ci riusciamo: al più li prendiamo ad esempio di forza, di determinazione (come se avessero altra scelta) e li “usiamo” per ricordare a noi stessi che siamo fortunati, e che non dovremmo lamentarci di fronte ad avversità che nulla sono rispetto a quelle che affrontano quotidianamente i diversamente abili, alcuni più di altri.
Comprensione, accettazione, inclusione sono parole importanti, abusate per quante volte ce ne riempiamo la bocca. Ma, nella realtà, corrispondono ad atteggiamenti molto difficili da mettere in atto.
Guardiamo gli atleti paralimpici mentre nuotano, mentre pedalano, mentre giocano a tennis tavolo, ma siamo più incuriositi dalla loro disabilità (questo cos’ha?) che non dal gesto atletico.
I sentimenti che ci colpiscono per primi sono la compassione, il dispiacere, lo stupore.
Oppure, peggio, non seguiamo proprio le loro gare, perché loro non sono belli, scultorei, performanti come gli atleti normodotati, che tanto ci hanno fatto sognare e urlare meno di un mese fa.
Non è così? Mi sto sbagliando? Sarebbe bello, ma non credo.
Eppure una speranza di cambiamento c’è: guardiamole queste paralimpiadi, accompagnamoli questi atleti, facciamoci coinvolgere e pian piano ci stupiremo sempre meno delle varie – a volte gravissime – disabilità e ci concentreremo sempre più sul gesto e sul risultato sportivo.
Ed ecco che avremo davvero accettato la diversità.
Claudia
PS ho appena guardato la finale dei 100 metri di stile libero maschile: ho iniziato facendo caso ai diversi “stili” dovuti alle varie disabilità (c’era chi non ha entrambe le braccia, chi un braccio e una gamba, chi non muove entrambe le gambe) e l’ho finita urlando “Vai! Vai! Vai!” al nostro Francesco Bocciardo, che con un grande recupero è andato a vincere! Oro! Bravissimo!