Ogni volta che preparo la sacca degli allenamenti penso a quante cose superflue ci portiamo nella vita: i freni alle nostre volontà, i limiti che ci tengono a terra, i rapporti che prosciugano.
Ricordate il film con George Clooney “In the air”, dove ai corsi motivazionali per manager mostrava uno zaino e invitava a lasciarlo a terra, e con lui tutti i pesi che le nostre relazioni creano?
Ognuno sulle proprie spalle si porta le dinamiche instaurate da anni con le persone care, gli amici, i parenti, gli amori, e si sa, le relazioni, qualsiasi sia la loro natura, pesano.
Allo stesso modo, quando facciamo sport, ci portiamo dietro i problemi, le paure e le aspettative.
Certi giorni basterebbe davvero poco per vivere lo sport, e così la vita di tutti i giorni, senza paura di restare impigliati a quello “zaino”.
Agli inizi correre è sempre facile: scarpette, pantaloncini e maglia e via; poi, più passa il tempo e più ci facciamo carico di qualsiasi cosa ci possa far stare meglio ma solo all’apparenza.
Allora, la teoria dello zaino è sempre più vera. Di fatto ci leghiamo a ciò che non serve, non abbiamo la libertà di vivere la corsa per quello che è, ovvero stare lontani, anche solo per un’ora, da tante cose superflue.
Gastone Breccia, grande podista appassionato, docente di Storia bizantina all’Università di Pavia, e autore de “La fatica più bella: Perché correre cambia la vita”, sostiene che non si può correre e pensare allo stesso tempo.
Emil Zatopek, il grande mezzofondista e maratoneta cecoslovacco, quando qualcuno gli faceva notare che il suo volto, quando era sotto sforzo, mostrava una terribile sofferenza, lui rispondeva di non avere abbastanza talento per correre e sorridere insieme. Grande, inimitabile, irraggiungibile Emil.
Anche io, in certi giorni, non riesco a pensare mentre corro. E mi sento molto vicino a una visione catartica della corsa rivolta a un percorso più leggero, prima di tutto mentale.
Pensate a quante volte in gara ci siamo sentiti “pesanti” per la settimana carica di affanni professionali, per aver portato avanti relazioni emotive che ci avevano corroso dentro e appesantito fuori.
Ecco, adesso provate a rifare, mentalmente, la stessa gara, indossando solo le scarpette, i pantaloncini e la maglia di antica memoria, senza lo zaino sulle spalle.
Provate ad essere un purista del running, un Anton Krupicka dell’asfalto cittadino.
No, non temete, non serve stare quasi nudo come Anton, uno dei più forti e carismatici ultratrail runners americani.
Ma basta alleggerire la corsa partendo dal concetto di corsa stessa. Viverla come luogo di formazione minimalista del pensiero.
Leggero e veloce.
Il running oggi è fatto di tante cose, un ingranaggio merceologico che ci vede più come portatori sani di carte di credito che di sostanze endorfiniche.
Non facciamo un passo se non siamo agganciati a un satellite, se non stoppiamo il crono al semaforo nell’ennesimo allenamento sempre uguale a quello degli altri mille giorni.
Abbiamo bisogno di chi ci dice cosa fare, quando farlo e come.
Chiamatela ribellione informatica, fuga dalla realtà, ma ci sono dei periodi in cui vorresti staccare il jack, inibire il bluetooth, dimenticare la password e scendere in strada senza alcun legame tecnologico, senza zaino appunto.
Mi sarò invecchiato ma credo che il podismo vecchia maniera abbia ancora il suo valore. Un approccio ortodosso non potrà che generare sempre grandi risultati.
Così, anche se per poco, voglio liberarmi da ogni orpello, lasciare a casa i legami inibitori e vedere in faccia il mio avversario, credendo anche solo alla partenza di poter fare meglio di lui.
Voglio invecchiare come Pino il Maestro dello storico gruppo Qd13, scarpe consumate, maglietta di cotone anche ad agosto, pantaloncino sgambato anni 70 e calzini vintage.
Essere l’ultimo baluardo del podismo verace e sanguigno, proletario, severo ma giusto.
Buon passo