Sul giornale c’era un’immagine di tre sirene nell’acqua azzurra, e la scritta: “Un corso per diventare una vera sirena”.
Già quello sarebbe bastato ad attirare la mia attenzione, ma poco sotto, in aggiunta, si specificava che era qualcosa di benefico per “muscoli addominali, del bacino, glutei, cingolo pelvico e dorso”, e a quel punto, pur chiedendomi cosa fosse il “cingolo pelvico”, avevo già preso lo smartphone per segnarmi il numero della società, la Delfinsub di Bolzano.
Il colpo di grazia me l’ha dato la chiosa finale: “In omaggio la coda”.
Cioè, come si fa a non iscriversi immediatamente a un corso per diventare sirena, dove in omaggio ti danno la coda? E potevo scegliere anche se viola o verde!
E così, a qualche anno dall’ultima volta, sono tornata in piscina.
Ambiente che odio, tra il resto: troppo freddo, troppi rumori, troppa acqua.
Ma l’occasione era davvero ghiotta – diventare una sirena! (occhi a cuore) – e quindi, dopo una prima lezione teorica sulla fauna marina – d’altra parte noi sirene dobbiamo conoscere bene i nostri condòmini, no? – eccomi al primo incontro in costume, dove scopro che per fare la sirena bisogna immergersi.
Ah, quindi non basta stare sedute su uno scoglio con i capelli bagnati a coprire il seno, salutando con la manina?
No: bisogna scendere un pochino in profondità, e per fare questo è necessario COMPENSARE, cioè liberare i canali uditivi soffiando il naso mentre lo si tiene tappato (come si fa per “stappare” le orecchie scendendo di quota in montagna) fino a sentire una sorta di leggero “stok” nel timpano: il segnale che si può andare giù, in acqua, senza sentire male alle orecchie.
Va da sé che io non ci riesco né al primo, né al secondo, né al terzo tentativo, ma nel corso della serata ci arrivo.
Nel frattempo, l’insegnante ci fa mettere tutte a bordo vasca, orizzontali e prone: tenendoci con le mani al bordo, dobbiamo mantenere le gambe a galla muovendo solo le anche e il bacino in su e giù, proprio come farebbe una sirena.
Siamo ancora senza coda, ma dobbiamo imparare i movimenti per quando la indosseremo.
Le mie gambe vanno giù. Le ritiro su e le muovo tenendole appaiate: tornano giu.
“Ma come si fa, non riesco a non farle scendere”,
mi lamento.
“Si vede che sei negativa”,
mi risponde l’istruttrice.
No, non sono negativa, lo giuro! Sono venuta qui piena di buona volontà e di voglia d’imparare!
Oddio, forse l’istruttrice mi legge nell’anima e ha capito che ho avuto una giornata dura e sono demoralizzata? Oppure che sono un tipo, di fondo, malinconico?
Ci penso mentre eseguo i nuovi esercizi: il delfinetto, ovvero nuotare in su e in giù sott’acqua (*Ma davvero ha capito che sono un tipo malinconico?*), la rana alternata, cioè muovendo prima solo le braccia, poi solo le gambe, sempre in apnea (*Forse è solo un bisogno di ferie, però*), le spinte a gambe unite con la tavoletta, che incredibilmente mi riescono (*Beh, è anche una fase anagrafica difficile, la mia: si sa che verso i 50 anni si fanno i bilanci…*), con la tavoletta, ma su un fianco (*… e anche il lavoro influisce sulla mia situazione di stress, sì*), poi sull’altro (*Comunque forte, questa istruttrice! D’altra parte, si sa: mente e corpo sono collegati, e lei, con la sua esperienza…*).
Tra una vasca e l’altra mi avvicino all’istruttrice:
“Sai, quando mi hai detto che sono negativa, beh…”
“Sì, esistono i tipi positivi, che fanno fatica a scendere sott’acqua, e quelli negativi, che hanno le gambe che li portano giù. Come te”.
Ah. Dunque era una semplice definizione tecnica.
Ora che posso smettere di autopsicanalizzarmi, mi concentro sulle spinte con la tavoletta all’indietro: stando supine, dobbiamo tenere le braccia con il galleggiante allungate dietro la testa, e ondeggiare col bacino per spostarci.
Le spinte in avanti, modestamente, mi sono venute benissimo, quindi, presa dall’entusiasmo, parto per prima: posizione, colpo di bacino.
Ferma. Secondo colpo. Ancora ferma. Comincio a dimenarmi: sento di somigliare più a un’orca ribaltata che a una sirena, ma con tutte le mie forze ondeggio col bacino mentre enormi schizzi d’acqua mi bagnano il volto e mi entrano nel naso.
Ma arriverò dall’altra parte della vasca, a costo di annegare!!!
Mentre mi dispero in questo acquatico ballo di San Vito, mi sembra di sentir chiamare il mio nome:
“Martina… Martina… MARTINA!!!”: mi fermo, apro gli occhi: a bordo vasca l’istruttrice, che mi dice “Guarda che sei sempre lì”.
E in effetti sono lì, a un metro dal bordo, con le altre sirene che mi guardano commiseranti e poi partono, mentre io ci provo e ci riprovo, e poi mi rassegno a trasferirmi dall’altra parte a dorso.
Prima o poi imparerò, mica si nasce sirene fatte e finite!
Perché, in effetti, fare la sirena non è per niente facile. Per esempio, il giorno dopo l’allenamento mi alzo con una bellissima sensazione di scioltezza al bacino:
“Alla faccia del fisioterapista che mi dice che sono rigida”, penso. Ma un’ora dopo, in ufficio, mi sembra che mi abbiano rinchiuso la parte centrale del corpo in una gabbia di ferro: alzarmi e sedermi sono manovre azzardate, per non parlare di scendere le scale o recuperare un documento in archivio.
Mi consolo pensando che è un segnale che ho lavorato, risvegliando una muscolatura assopita; ora so cos’è il cingolo pelvico: è quella zona che mi fa male da morire. Ma non vedo l’ora di rimetterla in moto… e poi, lunedì prossimo ci danno la coda, e quindi, se non raggiungerò il livello delle mie compagne, potrò sempre starmene seduta ad ondeggiarla a bordo vasca, sorridendo e salutando. Per sicurezza, mi sto facendo crescere i capelli.
Non si sa mai.
Martina Chiarani