Arrivo in ritardo, lo so. Casalinghi lavori di ristrutturazione hanno sepolto di calcinacci il testo che avevo men che abbozzato, appena messo le mani sul libro. Per cui, diradate le polveri, dedico qualche pensiero al volume – non più freschissimo di stampa – del nostro Raffaelli.
In privato, raccontavo a Marco uno dei problemi che assillano colui che assurge agli onori della nomea di “Autore”: chi omaggiare con una copia del volume? Beh, voi direte subito: “Agli amici più cari!” E, così pensando, renderete manifesta la vostra condizione di non-Autore.
Il mio mentore – e anche questa rientra tra le sue lezioni – fu categorico. Tolto un genitore, moglie/marito, l’“unico” amico insostituibile, i libri si regalano solo ai “nemici”, cioè a coloro che – per vari motivi – non li comprerebbero mai. Ed allora, anche per farlo schiattare di rabbia, glielo donate, per giunta con una dedica in cui sembriate grandi sodali. E gli amici? Beh, se sono davvero amici come potranno pretendere che, ognuno di loro, ne riceva una copia gratis? Proprio perché amici, il libro lo acquistano. Sicché anche io l’ho acquistato, confidando che il Raffaelli ricambi la cortesia “professionale”, comprando il mio ultimo testo che costa una cifra vicina ai 100 euro.
Finita la premessa, di mero colore, veniamo al dunque.
Dato che li avrete già letti, appare del tutto inutile raccontare la trama dei racconti che costituiscono “Siamo tutti sulla stessa strada”, per indulgere a quelle suggestioni che escono fuori nello spazio di una decina di chilometri di corsa.
Anzitutto, non è un libro sulla corsa ma sulla vita dei protagonisti delle storie. Un percorso “diagonale” su un momento di costoro, sulle loro personalità e sul mondo con il quale entrano in relazione. Sono vicende che, il più delle volte, lasciano l’amaro in bocca, ché la vita, per definizione, non ha un lieto fine. Qualcuno anticipa questa “condizione”, correndo appresso ai problemi (più o meno grandi) di cui nessuno pare veramente immune. Questa condizione ci accomuna a loro e, in molte situazioni, possiamo tranquillamente sovrapporci al personaggio, data la comunanza, e rivivere le stesse sensazioni. E’ quindi una finzione non-finzione che, poi, è l’unico modo per trasmettere quell’empatia tipica dei rapporti tra gli esseri umani.
C’è anche la corsa, beninteso. Ognuno con una propria declinazione (fatta salva una costante detestabile: vanno tutti a 4min/km) ma, soprattutto, con le tipiche questioni che appaiono di esperienza comune a tutti i podisti, rispetto a chi non corre. Anzitutto, considerare la corsa come una stravaganza, un “vezzo”, una astrusa forma di feticismo. Non serve aggiungere altro al quadretto. Poi il “metro” sulle distanze. Da pagina 39: “A Miche’, ma quanto è lunga ‘sta maratona?”. “Sono 42,195 metri…”. Segue poi, nella realtà: “E quanto è lunga la maratona di Roma?”. Come se la distanza cambiasse a seconda della città.
Non è la lunghezza il tema della corsa, quanto il suo rapporto con lo spazio, con l’ambiente attorno. La linearità è la “metrica” delle gare, ma non per nulla fondamentale per correre, come lo sono, invece, il tempo, il contesto non lineare e la persona. Su queste tre variabili, la “stessa” strada è, in verità, diversa per ognuno di noi.
Un’ultima nota. Per qualche ignoto motivo, c’è una forma di comunicazione ultraterrena che lascia un pochino interdetti. Marco scrive di asfalto, di colori e di kaizen; il sottoscritto scrive, nello stesso intervallo di tempo, delle stesse cose…
Non oso dire che i podisti hanno una marcia in più. Ma mi piace pensarlo.
[Riferimento: M. Raffaelli, Siamo tutti sulla stessa strada, Affiori, Roma, 2024]