Settembre, andiamo è tempo di insegnare

Taylor Wilcox - Unsplash

Premessa:

a 40 anni un essere umano dovrebbe aver concluso i conti con i propri fantasmi standard ( uno schiaffo immeritato della madre, un padre distante, un fratello maggiore che lo malmenava, l’amichetto dell’asilo che gli rubava la merenda ) e soprattutto dovrebbe aver capito che nella partita breve dell’esistenza è necessaria una serie di considerazioni alla luce del buon senso: un sano distacco è alla base di ogni pretesa di vivere con misura ogni situazione, familiare, lavorativa, esistenziale.

Distacco dagli intoppi, dagli ostacoli, non certo dalla linfa vitale che dobbiamo  – sempre perché abbiamo compreso che l’esistenza è parecchio corta – sempre far scorrere nelle vene al punto tale da provare ad esser contagiosi con chi, appunto, i conti con i fantasmi non li ha conclusi e non ha ancora capito che mettersi in gioco è la cosa più naturale e connaturata al trascorrere nel nostro angolo di mondo il tempo concessoci.

Sto parlando di vita, fin qui.

Ma tutto questo, se valido, a mio leggero avviso ( modesto non mi piace come aggettivo ) genericamente in molte situazioni, diventa iperbolicamente categorico nel mondo della scuola.

Dove si gioca la partita più importante e forte che l’essere umano possa concepire: un uomo, una donna che guida un gruppo di futuri uomini e future donne alla ricerca della propria voce e della propria luce.

C’è da far tremare i polsi.

Una partita che è uno sport estremo.

Primo problema: è una partita che si gioca a livello nazionale, statalmente.

Statalmente.

Il che non dovrebbe affatto essere un problema perché la scuola è un diritto bla bla bla e ci mancherebbe che fosse privatizzata.

E il problema allora dov’è?

Il problema viene fuori con tutti quelli che, fiutando che lo stato può essere un ottimo ammortizzatore sociale, anche e soprattutto se non si è disoccupati, indossano i panni del posto fisso. Persino in Italia.

Ed ecco che l’insegnante è uno statale dal primo giorno di lavoro.

Comincia ad interessarsi di ogni diritto che ha, delle facilitazioni, prende a lamentarsi se non è in possesso di tutti i diritti che si aspettava, si iscrive immediatamente a un sindacato, si informa su scioperi, assemblee, leggi, norme, corsi, esami, tirocini che possano, in qualche modo, sostituire la presenza classica a scuola, lezioni e ragazzi.

E perché mai?

La vera domanda è perché mai dovrebbe essere attratto più da questo mondo di diritti a suo parere lesi ( e quindi bisogna vigilare bene affinché non vengano lesi mai più ) che dal ruolo di guida dei “futuri uomini e future donne alla ricerca della propria voce e della propria luce”.

Qui c’è un equivoco, mi sa.

Ma non sono tutti così.

Ce ne sono altri a cui Zavattini tirerebbe le orecchie perché non prendono l’autobus in mezzo alla gente.

Cosa significa oggi non prendere l’autobus?

Significa non andare al cinema spesso, chiudere con i concerti e con la musica, spegnere ogni curiosità portando in classe questo colpevole senso di spegnimento risentito che appiattisce ogni voglia delle future donne e dei futuri uomini di cercarla, la propria luce. Di trovarla, la propria voce.

Loro, spesso blasonatissimi perché esperti, non fanno passare un filo d’aria nelle loro lezioni frontali, abbarbicandosi sul proprio programma svolto sempre alla stessa maniera, con nessuna preoccupazione di non risultare comunicativi o empatici, anzi, abbassando sempre più il tono di voce e lo sguardo stesso ( e la mascherina, oggi, fa il resto ) perdendo ogni contatto con i loro discepoli addormentati che sanno che qualcosa non va, che intuiscono che non doveva essere così, che, magari da qualche racconto di un coetaneo più fortunato di loro, sanno che le lezioni coinvolgenti esistono, sanno che la scuola può flirtare con la vita, che non è un muro contro un altro muro, ma che farsi dolcemente invadere da chi ne sa più di loro potrebbe, in qualche pezzo di mondo, essere addirittura appagante.

Confortante. Nutriente e illuminante.

Invece no.

Ai ragazzi non frega niente della lezione, sono spenti, apatici, passivi, non si fanno capire, non capiscono quanto la scuola sia importante per loro.

Ah, ecco.

Invece noi l’abbiamo capito, eh?

L’impressione che molti di noi non l’abbiano proprio capito e che continuino a portare in classe non solo i propri fantasmi standard, ma la loro rigidità, la rabbia, la frustrazione di essere, evidentemente, nel posto sbagliato.

Il problema è il reclutamento?

Sì. Indubbiamente.

Non sono a capo di un ministero, ma ho incontrato tanti sguardi da una parte e dall’altra della cattedra.

E da questa piccola cattedra mi sento di chiudere questi spunti di riflessione con un piccolo decalogo che è anche un test, fallo senza mentire a te stesso:

  • SEI STANCO GIA’ A SETTEMBRE PERCHE’ QUESTA SITUAZIONE DEL COVID E’ TROPPO PESANTE E SEI IMPAURITO DI NON SAPER METTERE IN ATTO TUTTE LE NORME? NON PUOI INSEGNARE
  • SEI LAMENTOSO PERCHE’ IL MONDO E’ CAMBIATO TROPPO E I RAGAZZI PARLANO UN’ALTRA LINGUA? NON PUOI INSEGNARE
  • SEI RIGIDO TANTO CHE LE TUE STESSE LEZIONI LO SONO, E SONO NOIOSE COSI’ TANTO CHE TI ANNOI TU STESSO? NON PUOI INSEGNARE
  • PENSI DI ESSERE IN CREDITO CON LA VITA? NON PUOI INSEGNARE
  • NON SENTI DI ESSERE NEL POSTO PIU’ COSTRUTTIVO DEL MONDO QUANDO ARRIVI IN CLASSE? NON PUOI INSEGNARE
  • NON COMUNICHI CONTINUATIVAMENTE CON CONTATTI OCULARI? NON PUOI INSEGNARE
  • NON RIDI ALLE LORO BATTUTE PERCHE’ SEI TROPPO IMPEGNATO A RIMANERE NELLA TUA DISTANZA, BEN OLTRE I DUE METRI, E NEL TUO RUOLO SERIO ISTITUZIONALE POLVEROSO E ACCADEMICO? NON PUOI INSEGNARE
  • NON VAI AL CINEMA DA DUE ANNI? NON PUOI INSEGNARE
  • QUANDO PARLI DEI TUOI ALUNNI NON SORRIDI E NON TI INTENERISCI? NON PUOI INSEGNARE
  • NON TI VIENE MAI IL DUBBIO CHE L’ORA CHE STAI TRASCORRENDO CON I TUOI ALUNNI POTREBBE ESSERE UN’OCCASIONE SIA PER LORO CHE PER TE E CHE FORSE STAI RUBANDO IL POSTO A QUALCUN ALTRO? NON PUOI INSEGNARE

Te lo ricordo, sei uno statale ma non lavori al catasto.

Semplice.

 

Elvio Calderoni
Ho vissuto senza sport per i miei primi 40 anni. Adesso diciamo che sto recuperando, dato che ho un sacco di muscoli e fiato ancora nel cellophane. Cultore della parola detta e scritta, malato di cinema, di musica, di storie. Correnti, già corse e da correre.