Sono reduce da una di quelle sessioni di preparazione “spirituale” ad un compito impegnativo.
Il lavoro da svolgere, infatti, occorre saperlo inquadrare.
Da una parte ci sono gli obiettivi, i mezzi disponibili ed i risultati attesi, come se si ordisse una incursione nottetempo in territorio nemico. A latere, tutte le risorse, di altro genere, che possono essere utilizzate e che rientrano nello zaino tattico del capo. Prima fra tutte, la fiducia negli altri e la loro nei tuoi confronti. Ma c’è un elemento basilare che costituisce il vero collante: la voglia di voler realizzare l’obiettivo.
A dispetto di quanto si creda, non è affatto il dovere a guidare al successo, ma aver scelto di volerlo conseguire. L’impostazione gerarchica è solo funzionale (di chi ne sa di più e meglio) perché il “comando” (tranne in guerra, evidentemente) può sortire una “adesione” di facciata, ossia un mero adempimento per non incorrere in sanzioni disciplinari, ma non la “voglia”, cioè la scelta di voler fare quel lavoro.
Riflettevo su questa circostanza – nella solita filosofia spicciola – perché lo stesso criterio dovrebbe applicarsi all’attività sportiva, almeno dilettantistica. Dobbiamo andare a correre, dobbiamo fare le tabelle (specie se “comandate” dal coach), dobbiamo migliorare il personale, e così via…
Non prestiamo attenzione alla circostanza, ormai notoria, che i verbi servili come “dovere” provocano un aumento dello stress perché implicano una sorta di ineluttabilità al di fuori del nostro diretto controllo. Quando “dobbiamo” fare qualcosa è chiaro a tutti, a cominciare da noi stessi, che si tratta di un imperativo al quale dobbiamo per forza soggiacere, con o senza delle effettive sanzioni che, però, appaiono comunque, seppur sfocate, nello sfondo.
Il “devo” non ammette deroghe. Se, però, dal “dovere” si passa al “volere” ecco che si genera un effetto non banale.
Il volere implica una possibilità di scegliere. Voglio andare a correre ma potrei anche continuare a leggere il libro che ho iniziato ieri. Mi piacerebbe – vorrei – conseguire il personal best, ma posso anche decidere di lasciar perdere, dopo un paio di chilometri in cui le gambe non girano, per farmi una chiacchierata con un vecchio compagno di squadra.
Quelli che vogliono, quindi, scelgono di fare una cosa e, in genere, alla fine, possono riuscire perché non sono “costretti” a farlo.
Avendo scelto di voler intraprendere una qualsiasi attività, la motivazione non deriva da un “comando” (che subiamo) ma da una motivazione che sorge dalle alternative a disposizione. Con ciò non si intende sottovalutare il concetto di “dovere”.
E’ chiaro che posso parcheggiare in divieto di sosta perché non ho difficoltà a pagare la contravvenzione, oppure dichiaro che non voglio fare un certo lavoro per farne, se possibile, un altro di pari intensità; ma non sempre c’è scelta se il “dovere” è legato alla sopravvivenza di un certo sistema organizzato.
In tutti gli altri casi, provate invece a verificare se l’obbligo non sia un modo per diventare “vittime” dell’ineluttabile, quasi che sia socialmente più consono “eseguire”, piuttosto che affermare che abbiamo “scelto” di “voler” fare qualcosa.
Parafrasando Kant si potrebbe affermare “Scegli, quindi puoi” che, a ben guardare, è molto meglio di “Puoi, quindi devi”.