Ho perso mio padre. Accade ed è successo. Nonostante abbia fatto il possibile per tenerlo in vita, giunge un momento in cui la forza contraria è superiore ad ogni nostra, pur lodevole, possibilità.
E’ stato difficile ricominciare una vita “normale” (ammesso che noi si sia “normali” e c’è da dubitarne) e mi resta, tra i tanti ricordi, quelli legati all’attività podistica.
I genitori di una certa fatta vedono queste attività come una stravaganza del tutto fuori luogo. “Non sarebbe meglio che tu faccia qualcosa di utile?” questo era più o meno il giudizio, espresso, senza proferire neppure una parola, quando sapeva che correvo una maratona.
Dietro il pre-giudizio albergavano tutta una serie di fattori che non potevo smentire (il padre è sempre il padre e questo ruolo non può essere messo in discussione, soprattutto dal figlio). Provavo a instillare il germe del dubbio, senza alcun esito.
In effetti, una qualche ragione l’aveva. Ero un pigro perché muovevo solo i neuroni, con risultati molto lusinghieri, per cui il mio papà non riusciva a concepire che uno scrittore di libri (seri), dei quali gli regalavo la prima copia (con dedica), potesse cadere così in basso nella scala metrica degli esseri umani. Le capacità professionali confermavano, senza dubbio alcuno, che avevo smarrito almeno uno dei venerdì.
Provavo ad argomentare, senza alcun successo, benché gli spiegassi tutta una serie di vantaggi. Finché, inaspettatamente, ho colpito il bersaglio giusto. Proprio al centro, per giunta.
Quando gli feci notare che potevo soccorrere ogni familiare in difficoltà, con insospettate capacità “operative”, proprio per via della corsa, restò per un attimo sulle sue. Dopo qualche minuto, comprese cosa volevo dire.
La corsa è un “passatempo” ma è anche qualcosa di più e lo dice un plantigrado che, al primo soffio di vento, indossava un giaccone per spedizioni artiche. Lo stesso esemplare di sub-umano si spogliava alla “Tre Comuni” incurante (beh, non proprio), del ghiaccio e della neve intorno. Poi correva per 23 chilometri, senza che ci fosse un medico ad ordinarlo.
Tutto ciò doveva avere in senso e, alla fine, il mio babbo lo ha compreso perché mi ha visto all’opera quando era lui da soccorrere. La chiamano resilienza ma è la forza dell’amore. L’amore, da solo, però, non può sopportare un carico superiore alle possibilità concrete se, prima, non si siano scalate le montagne.
Spesso mi tornano, alla mente (ed al cuore), delle immagini, dei momenti vissuti assieme, tra i quali quel momento in cui ha “compreso” perché una persona “seria” possa (e, in un serto senso, debba) fare delle attività non condivisibili. Non sono certo che abbia afferrato il costrutto con la logica, ma so che il cuore gli ha dettato la risposta giusta. Ed io ho potuto sentirla, prima che fosse troppo tardi.
Mi accompagnerà, di quando in quando, nella corsa, nei momenti nei quali un altro modo di vedere le cose ha visto le stesse cose di suo figlio.
Per Diego (1941-2024)
[Nella foto il sottoscritto, invero bellissimo, è in braccio al suo papà che c’è proprio perché non si vede. Il padre deve sorreggere ma non soffocare, deve essere presente, ma sullo sfondo, dove le cose si vedono in un modo diverso. Una lezione che ho applicato, affinché qualcosa del nonno giungesse alla sua strepitosa nipote (la pipa de papi)]