La vita è strana e per quanto ti affanni a cercare di decidere dove andare, ti porta dove vuole e toglie e mette persone e luoghi come se un’entità superiore stesse componendo un grande puzzle il cui disegno cambia continuamente.
É esattamente in questo modo che si conoscono persone straordinarie e che i viaggiatori scoprono luoghi meravigliosi.
É stato così che mi sono trovata a passare da uno studio di architettura ad una piccola società di impianti, è stato così che ho conosciuto Antonio Spica .
Antonio è un ragazzo siciliano che la vita ha deciso di mettere alla prova con una grande perdita. Esattamente all’età di 27 anni, un incidente in moto gli ha tolto l’uso delle gambe ed ha cambiato la sua prospettiva.
Quando ci siamo conosciuti io non avevo mai avuto occasione, se non per pochi minuti, di interagire con una persona con disabilità.
Onestamente non sapevo come comportarmi, il mio imbarazzo era visibile, temevo sempre di dire la cosa sbagliata, così ci ha pensato lui a cavarmi d’impaccio.
Un giorno mi si avvicina con dei faldoni poggiati sulle gambe, mi sorride e mi dice:
“mi presti la tua altezza?”.
Ho sorriso e ho capito che avevo di fronte una persona con una sensibilità superiore.
Siamo diventati amici. La macchinetta del caffè era il luogo di incontro di tutti noi.
Ci scambiavamo battute, dubbi e incertezze.
Ero passata da un luogo di lavoro dove tutto funzionava perfettamente tranne i rapporti umani, ad una realtà professionale, scalcinata, sull’orlo del fallimento, dove la sola cosa che funzionava erano le relazioni tra le persone.
Ricordo giornate cariche di ansia in cui ci supportavamo a vicenda e interminabili caffè durante i quali ci raccontavamo le nostre vite.
La società è fallita e ci siamo divisi tutti. Ancora una volta la vita lo aveva messo alla prova, ancora una caduta, ancora una volta toccava risollevarsi da quella sensazione di impotenza nei confronti dell’inevitabile che ti travolge come un’onda.
Antonio è “resiliente”.
Questo termine abusato dalle pagine motivazionali di Facebook non può non essere usato per definire la sua capacità di rimettersi in piedi…da seduto.
Noi runners consideriamo il cuore e le gambe le parti più importanti del nostro corpo.
La verità è che basta il cuore.
Il giorno in cui è stato messo in mobilità, Antonio ha cominciato a dare ordine alla sua vita, ad aggiornare il curriculum a cercare su internet una nuova via.
È stato così che, vagando nel web, si è trovato davanti un sito sul cammino di Santiago.
Una sfida, una battaglia, un’avventura, una diligente e meticolosa preparazione. Nemmeno il tempo di rendersene conto, che già la sua mente tesseva la tela intricata dell’organizzazione e si perdeva in quei dettagli che avrebbero fatto la differenza.
Non c’era una data, solo una consapevolezza “mi sento pronto”.
Un volo di sola andata per la Spagna e l’avventura ha avuto inizio.
Quando ho sentito Antonio e mi ha raccontato la sua storia, mi ha scritto una frase di Herman Hesse.
“Ciò che conta è tutto dentro di noi; nessuno da fuori ci può aiutare. Non essere in guerra con se stessi, vivere d’amore e d’accordo con se stessi: allora tutto diventa possibile. Non solo camminare su una fune, ma anche volare.”
880 km in solitaria. Alla scoperta della parte più profonda del suo cuore e dei suoi limiti. Alla ricerca della fede che per tutta la vita non lo aveva mai abbandonato e ora cominciava a vacillare.
Un uomo, i suoi pensieri e una handbike.
Questa esperienza ha dato origine al progetto per la fondazione di una associazione, Access Emotion, che ha l’obiettivo di dar voce ed espressione alla volontà di movimento delle persone con disabilità.
Come aveva fatto con me anni prima, si è posto l’obiettivo di aiutare le persone a superare le barriere e le resistenze mentali verso chi vive delle difficoltà affinché questi ultimi non perdano la volontà di inseguire i propri sogni.
Dopo il cammino di Santiago, la handbike è diventata la sua compagna di avventure trasformandolo in un maratoneta.
Chi ha detto che servono le gambe per correre?
É stato così che Antonio si è avvicinato al mondo del podismo girando le più belle città d’Italia, sfidando le regine più belle del mondo e vincendo la sua battaglia per la vita.
Come un ultra maratoneta, la lunga distanza cominciava a mancargli e quindi perché non realizzare il sogno di sempre?
Attraversare la strada madre degli americani, la Route 66, 4000 km da Chicago a Santa Monica.
Non si tratta di 42,195m, ma di ben 4000 Km da percorrere in un mese con una handbike.
La preparazione ha richiesto un notevole impegno fisico, ma ancora di più psicologico.
Si è trattato di una prova di volontà notevole, una prova al limite.
La ricerca di equilibrio tra corpo e mente era uno step fondamentale, e la sola disciplina in grado di portare a questo equilibrio è lo Yoga.
Ancora una volta la volontà, sfida dei propri limiti e coraggio hanno portato Antonio oltre il traguardo.
Ancora una volta si è aperta la strada per un nuovo progetto. Stavolta un racconto. Il racconto di questo viaggio straordinario in un libro scritto a quattro mani con la scrittrice Laura Ferraresi. “Lui lei e la Route 66”.
Continuo a domandarmi se esiste davvero un limite per quest’uomo e ogni volta che me lo domando lui torna a sorprendermi con un nuovo progetto. Sempre avanti. Sempre più ambizioso. Sempre più carico di energia positiva.
Un giorno apro Facebook alla ricerca di nuove lamentele per il tempo, il caldo, il freddo, la stupidità delle persone e invece trovo un articolo su Antonio.
La sola cosa che gli mancava, la sola sfida da portare a compimento era tornare sulle sue gambe ed eccolo li. In piedi. Avvolto in un esoscheletro. Ho pianto. Ho pianto di gioia perché a suon di sfide e di martellate e di allenamenti di corpo, mente, volontà e “non mollare mai” ci era riuscito.
Il centro ReWalk di Roma gli aveva dato questa possibilità. Non si tratta di un sostitutivo della carrozzina, ma di un sistema di riabilitazione degli arti inferiori, ma tutto questo non importa.
É in piedi. Non esiste l’impossibile, basta volerlo.
Avrei concluso così, ma voglio concludere con una frase che mi ha scritto.
“Ho provato una grossa emozione quando è venuto il momento di alzarmi in piedi, mi mancava quasi l’aria, è stata una sensazione unica. Rivedermi in postura eretta mi ha fatto sorridere, non mi ricordavo così alto”.
Ludmilla Sanfelice