La storia di Hope

la storia di Hope

– Rick ti prego fammi correre!-
– Buonasera! – rispose lui senza alzare lo sguardo dalla scrivania.

A lei non importava nulla. Erano 75 giorni che non si allenava come si deve, se si esclude qualche corsetta di due o tre km sul dolore lancinante del muscolo che tirava come una corda di violino.

-Mi serve una magia Rick! Solo tu puoi fare una magia!Fammi correre! non ne posso più-

Aveva perso ogni pudore, ogni timidezza, ogni barriera caduta sotto le picconate della dipendenza, come il muro di Berlino. Sembrava una tossicodipendente in preda alla peggiore delle crisi di astinenza.

Lui era calmo, serafico, sicuro di quella conoscenza del corpo umano che gli permetteva, toccando la muscolatura temporomandibolare di scaricare il tibiale della gamba opposta.

Aveva accettato di visitarla nonostante una giornata faticosissima, sapeva quanto era importante per lei tornare ad allenarsi.

Hope non era una campionessa. Tutt’altro. La sua passione nasceva dal dolore pigiato per anni nel suo cuore come in una valigia troppo piena. La corsa lo aveva fatto esplodere e la aveva costretta a mettere ordine. A fare i conti con il passato, lasciare indietro le zavorre inutili, a guardare al futuro con una luce nuova.

Le era rimasta incollata addosso l’intolleranza per quello che è incerto. Se è vero che nel dubbio è la vera crescita nella vita, ci sono certezze a cui non si può rinunciare e non sapere quale fosse il problema che le faceva sentire tutto quel dolore la mandava al manicomio. Se cadi e ti rompi qualcosa sai che dovrai seguire un percorso. Qui il percorso è fumoso e la via della guarigione si intravede appena.

Erano passati tre mesi da quel giorno che doveva essere il coronamento di tutti i suoi sforzi. Giornate intere dedicate ai lunghi, a correre senza fermarsi per tre o quattro ore cercando di non mollare, imparando a sentire il suo respiro, le sue gambe, la fatica dolorosa e nel contempo piacevole.

Mancava l’ultimo tassello, il gran finale, niente che non sapesse fare. È stato proprio allora che il suo corpo l’ha mollata per la prima volta.

Aveva fatto un allenamento da marine. Niente musica, niente compagnia, un giro ad anello con una sola fontanella ogni 6km, praticamente una simulazione di gara. Mancava quell’ultimo tassello.

Pochi giorni prima della partenza le si era ammalata mezza faccia. Le colava una sola narice, le faceva male solo una tonsilla. Mezzo raffreddore ed un bombardamento di antinfluenzali per poter varcare la soglia dello start.

Aveva freddo, quell’umidità le entrava nelle ossa, il cielo plumbeo le offuscava la vista e tutti non facevano che ripeterle che era la testa a cederle e non il corpo, ma non era così.

Il suo sistema immunitario lavorava a cannone. Non era covid, aveva fatto 5 tamponi prima di partire e tutti erano negativi. Aveva freddo, i muscoli le facevano male, la testa era una mongolfiera ancorata al corpo e quel dannato telefono che non la smetteva di fare arrivare mail di lavoro.

-Cazzo è sabato! Ma non riposate mai? non avete nulla di divertente da fare? Lancia anche tu una freccia avvelenata di rottura di coglioni a Hope! Il primo che la fa apparire come San Sebastiano vince una bambolina!-

La sera a cena era riuscita a mangiare pasta all’olio senza parmigiano e petto di pollo alla piastra. Aveva fatto tutto come doveva, ma continuava ad avere freddo, un freddo umido e penetrante.

-Non posso mollare ora! Non posso arrendermi ora!-
Era diventato il suo mantra. Lo ripeteva senza sosta, giorno e notte. Continuava a svegliarsi alle tre del mattino e restava sveglia fino a che non la vinceva il sonno.

-Ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare-

Quella mattina si alzò senza fatica. Si vestì mettendo la felpa che avrebbe buttato al momento dello sparo, le braccia con i mostri che le aveva regalato suo marito Mark e la divisa sociale. Sembrava tutto ok, ma il freddo, quel freddo penetrante, non smetteva di sentirlo.

Fece colazione, panino al prosciutto e 20g di parmigiano due ore prima. Ancora una volta ligia come un soldato.

Scese in strada e si avviò verso la griglia di partenza. Era ultima. Non importa. Il piano era “parti piano, senza fatica e aumenta progressivamente”.

Al quinto km c’era il primo ristoro. Hope afferrò la bottiglietta e bevve di gusto. L’acqua era fredda e le scese nello stomaco come una palla di acciaio. Non saliva e non scendeva, ma lei sentiva di poterla ignorare e così fece. Forse era solo debolezza. Il grigio del cielo aveva ingrigito tutto, le case, le persone, i suoni che sembravano provenire da un altro pianeta.

Non ragionava più.

Al decimo km, dopo aver bevuto un gel e altra acqua, si accorse che aveva scambiato il tema di Superman per quello di Indiana Jones. Tutto faceva su e giù ed era sempre più difficile ignorarlo.

Il rumore dei tamburi le risuonava in testa come un mix di campane tibetane suonate direttamente nel suo cranio. La fronte era bloccata, come se avesse ovatta al posto del cervello.

In un attimo di lucidità si accorse che era arrivata al ventunesimo km. Cominciò a camminare.

Doveva avere una pessima cera visto che un ragazzo vestito da Iron Man con tanto di caschetto e AC/DC che cantano Back in Black al seguito, le si avvicinò e con un sorriso le porse un gel. Ci mancava solo il cambio di gel in corsa.

-No thanks-

Lo ringraziò con un sorriso e bevve il suo sperando di stare meglio. Nello stomaco aveva ormai una torta a strati fatta di acqua ghiacciata e gel all’arancia che non andava ne su ne giù. Fermarsi non era un opzione, ma il suo obiettivo le scivolava dalle mani e si perdeva nell’asfalto che si lasciava alle spalle.

Tutti i quattro litri di sangue che un essere umano ha nel corpo le si erano concentrati nello stomaco. Non c’era più sangue per il suo viso che era diventato cereo, non ce n’era per le sue gambe che si erano gelate e le facevano male. Il polpaccio era duro e compatto, un monoblocco di cemento che faceva su e giù e ad ogni passo e ad ogni contrazione le causava un dolore lancinante. Le vecchie ferite si risvegliavano nella gamba sinistra e facevano male anche loro. Era come un’orchestra di ossa e tendini che produce una musica stridula, come dieci unghie sulla lavagna a scuola.

Una nuova presa di coscienza le fa leggere la distanza percorsa. 33km.

È stato solo allora che ha cominciato a farsi delle domande. Quella maratona doveva essere “la maratona” la sua prima, quella corsa al meglio delle sue capacità e stava uscendo dal forno come il più perfetto dei soufflé, ma ammosciato.

Cosa sarebbe stato meglio? arrivare e portare a casa una nuova medaglia da 5 ore o fermarsi, accettare una situazione impossibile e magari evitare danni peggiori?

Improvvisamente si sentì come la personificazione della giustizia con una enorme bilancia tra le mani ed una scelta veramente troppo difficile davanti. Solo 9 km.

-Quante volte ho fatto 9km?- Pensò. Poi si guardò alle spalle e vide i 33 che aveva affrontato. Aveva ancora più freddo, era dolorante e senza forze. Si arrese.

Una resa rumorosa, dolorosa, angosciante. Sapeva che tutti avrebbero pensato ad una debolezza, una incrinatura nella sua volontà, ma tutto era contro di lei.

Si avvicinò ad una volontaria e le chiese in inglese come fare a chiamare un taxi. La donna non capiva granché e non fu di grande aiuto. Hope continuò a camminare. Si guardava intorno cercando un’ambulanza, un medico, un vigile o un poliziotto che potesse aiutarla.

Camminò altri due km mentre cercava di chiamare un taxi. Nulla. La città era bloccata per la maratona e di taxi nemmeno l’ombra. Le gambe non la sostenevano più, vide un furgone di volontari, si avvicinò e chiese qualcosa per coprirsi visto che non avrebbe più corso.

Nessuno le chiese se stava male, però le diedero un telo di quelli che sembrano una stagnola. Era arrivata all’altezza dello zoo, si sedette sul muretto accanto all’ingresso e continuò a chiamare sperando che qualcuno le rispondesse o che arrivasse un taxi. Nulla.

Le persone che passavano in macchina la guardavano e lei guardava loro. La mente vuota e il freddo nell’anima. Un profondo senso di sconfitta la pervadeva. Stavolta la sua migliore amica era stata la sua peggior nemica, ma Hope non gliene voleva per questo, sapeva bene che in 42,195 m tutto può accadere. È un viaggio al limite delle possibilità di corpo e mente, specie le prime volte, quando non siamo realmente pronti come vorremmo, quando gli imprevisti diventano montagne invalicabili.

Erano questi i pensieri che le annebbiavano la mente. Questi e molto altri. Non poteva restare li. Stava congelando. Decise di camminare, prima o poi avrebbe trovato aiuto o sarebbe arrivata al limite del tempo massimo al traguardo.

A 35km vide un poliziotto. Si avvicinò e gli chiese un taxi o un medico. Era esausta, demotivata, svuotata. Lui le indicò un edificio, le disse che era l’ospedale e che sotto c’era un parcheggio di taxi. A lei la scelta, ricovero o albergo. Tutto quello che Hope desiderava era una doccia bollente e l’abbraccio confortante e tiepido di Mark che la stava aspettando in preda alla preoccupazione nel non vederla arrivare.

Prese il maledetto taxi. All’ingresso dell’albergo c’era lui con i soldi per il taxi e il suo cappotto pieno di calore umano. Stette subito meglio. Salì in camera e fece una doccia di 40 minuti. Il calore dell’acqua bollente la riportò al mondo, lavò via il malessere del corpo ma non potè nulla con quello dell’anima e del morso gelido del fallimento.

– Fammi tornare a correre Rick. Ho un bisogno disperato di lavarmi l’anima -.

Ludmilla Sanfelice
Un giorno senza sorriso è un giorno perso. Non importa quanti pesi portiate sulle spalle, la vita è un battito di ciglia e va vissuta in ogni istante. Come l’ho scoperto? Allacciando le scarpe e cominciando a correre. Run Lud Run! Ogni giorno una nuova storia aspetta di essere raccontata.