Mesi addietro, mi sono imbattuta nella raccolta di racconti ripubblicata da Minimum fax “La solitudine del Maratoneta” di Allan Sillitoe.
Sono racconti duri, forti che non lasciano spazio a nessun dubbio su come potesse essere pesante e squallida la vita della classe operaia negli inizi del secolo scorso a Nottingham in Inghilterra.
La solitudine del Maratoneta, il primo della raccolta, narra la storia di Colin Smith un giovane recluso in un penitenziario minorile dove viene notato per la sua attitudine alla corsa.
Colin corre veloce, più veloce di chiunque altro e il Direttore del penitenziario vuole sfruttare questo suo talento per la propria gloria personale. Ma mentre lo incita a fare il meglio del meglio per vincere la “Coppa Nastro Azzurro dei Riformatori per la Maratona”, mentre lo tratta come un cavallo di razza con tutti gli zuccherini del caso, il “panciuto Direttore dall’occhio bovino”compie l’errore di dimenticare l’indole ribelle del protagonista e di come la corsa la rafforzi, mettendola a fuoco nella mente di Colin.
Correre chiarisce in lui le differenze sociali esistenti tra i reclusi e chi li reclude, tra i falliti sociali e chi tenta, in un modo tutto suo, di redimerli. Ed è così, attraverso la corsa, che Colin mette a fuoco il suo piano di contestazione e di affermazione di ciò che lui stesso è, di ciò che rappresenta e di ciò che, per quanto malefico e riprovevole possa essere, ritrae comunque la sua identità e quella di un intera classe sociale; un’identità che lui stesso non vuole abbandonare, che lui stesso non vuole tradire.
Calzanti le riflessioni riportate dallo scrittore, che in uno stile letterario sincero e aderente alla stessa vita da lui sperimentata, ci regala dei brani sorprendenti che forse lasciano il lettore quasi deluso, per la mancanza di buonismo, per la mancanza di un asservimento ad una redenzione che non incanta mai Colin, che non lo convince a spostarsi verso un cambiamento che egli sa essere solo una farsa.
“No, non mi raddrizza la schiena perché è sempre stata dritta, da quando sono nato. Quello che fa è mostrarmi con che cosa hanno cercato di spaventarmi. Hanno anche altre cose come la prigione e, alla fine, il capestro. E’ come se io, saltando addosso a un tizio per rubargli il cappotto, mi fermassi all’improvviso perché lui tira fuori un coltello e lo alza per infilzarmi come un maiale se mi avvicino troppo.”
Colin non vuole essere diverso, non vuole divenire migliore, buono, accettabile, non è in cerca di consensi, perché sa bene che lui è e sarà sempre un diverso, un reietto a dispetto di qualunque vittoria, di qualunque medaglia.
Privando il lettore di ogni speranza, di ogni inutile moralismo, lo scrittore spinge Colin durante tutti i duri allenamenti giornalieri a rafforzare il suo intento, l’unico: boicottare le aspettative di una classe sociale che non gli appartiene, boicottare il tornaconto personale di chi, sentendosi migliore di lui, vuole utilizzarlo come uno strumento di dimostrazione che “il sistema funziona”: “Quel bastardo rimbecillito del nostro Direttore, quel negriero mezzo morto e incancrenito, è vuoto come una latta di benzina usata, e vuole che io e la mia vita di corridore gli diamo la gloria, gli mettiamo dentro sangue e vene pulsanti che non ha mai avuto […] e i suoi compari penseranno “in fin dei conti insegna ai suoi ragazzi a vivere rettamente; si merita una medaglia, ma noi lo faremo nominare baronetto […]”
E così pochi metri prima del traguardo, solo, davanti a un intera platea di perbenisti si ferma e fa passare il maratoneta dietro di lui, rifiutando la corda tesa del traguardo, quella corda che lui toccherà solo da morto perché fino a quel momento “io sono un maratoneta, e faccio la corsa a modo mio male che vada”.
Colin testimonia in modo coraggioso, l’irreversibilità di un’intera classe sociale che non è possibile trasformare con pochi anni di riformatorio e qualche medaglia, quella classe sociale che lo scrittore conosce molto bene e dalla quale proviene.
La corsa diventa strumento di riscatto, di una affrancazione ribelle posta fuori dagli schemi, di un’interiorità matura e schietta che non si racconta bugie, nella consapevolezza di Sillitoe che la libertà è una condizione intima, un’attitudine dell’anima, e non il regalo interessato e stitico di qualcun altro. E’ un affare personale, confidenziale, che trova il suo culmine in quegli attimi di solitudine ben conosciuti da ogni podista.
Un grande autore, un personaggio difficile da dimenticare, soprattutto per chi corre.
Chiara Agata Scardaci
Per saperne di più:
http://www.theguardian.com/books/2010/apr/25/alan-sillitoe-obituary
http://www.minimumfax.com/libri/scheda_autore/451
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