La scatola dei sogni

Sonia Bozzetti e sua figlia Arianna stanno andando a casa di Nonnanita, al quartiere Prati, dove l’anziana donna vive con la badante.

I parenti della grande famiglia dei Bozzetti la chiamano così. Lei è Nonnanita per tutti. Ha vissuto per 70 anni accanto a suo marito Benito, detto Tito per un nome scomodo nella tradizione socialista dei Bozzetti.

Tito è morto da circa due anni, e in un lento incedere di giorni diversi, e all’apparenza sempre uguali, Nonnanita sta facendo i conti con la sua storia.

Oggi è il sabato di Arianna e Sonia e nessuno glielo può portare via: tre donne, tre generazioni diverse, una volta al mese si ritrovano per parlare del passato e delle aspettative nella vita di una diciottenne bella e dalle grandi speranze.

Il cortile del palazzo di viale Giulio Cesare dove vive la nonna è stato il luogo dove Sonia è cresciuta e da cui ha spiccato il volo verso gli studi e la vita di oggi.

Nonnanita la seguiva da vicino. I genitori di Sonia hanno lavorato tanto e il compito di stare con la figlia era demandato ai due nonni materni.

Anita nella sua vita non ha fatto ciò che avrebbe voluto, ma sapeva dell’importanza della cultura e della formazione scolastica e per questo aveva tanto insistito con sua figlia affinché la nipote facesse l’università a Berlino.

Sonia conseguì una laurea in architettura alla Universität der Künste e a metà anni ‘90 tornò in Italia per poi sposare Cesare e fare una famiglia da cui nacque Arianna.

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“Ciao Nonnanita, come stai?”

“Eccole le mie colonne, che belle che siete, venite venite”.

Nonnanita si è messa il “vestito della domenica”, ha voluto la messa in piega del parrucchiere che vive al piano di sotto e, per non essere disturbata, ha lasciato il pomeriggio libero alla badante.

“Venite qui e datemi un bacio che mi serve proprio. Il sabato arrivo esausta, ogni giorno accanto ad Alina mi consuma, tanto cara quella ragazza ma è troppo precisa…”

“Dai nonna che è un brava donna e ti sta aiutando in questi anni senza nonno.”

Al centro della sala ci sono tre poltrone che per l’occasione sono state rinfrescate nei tessuti. Nonnanita seduta in quella di mezzo riprende a parlare, ma con un tono che né Sonia, né Arianna avevano mai sentito prima.

“Oggi vi farò fare un viaggio nel tempo, ma sarà un viaggio a ritmo di musica” – dice con fare scherzoso per smorzare la tensione che si era creata.

La ragazza sorride e la nipote Sonia resta in attesa, curiosa.

Nonnanita si poggia allo schienale, alza gli occhi al cielo ma solo per un secondo e poi torna a specchiarli in quelli azzurri di Arianna che aspetta di sentire la sua storia.

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Nell’estate del 1944 avevo 20 anni, ero bella e spaventata per tutto quello che avevamo subìto con la mia famiglia. Fu una stagione caldissima e ogni notte, per riuscire a dormire, me ne stavo in cortile cercando un po’ di fresco. Eravamo gli “sfollati di San Lorenzo”, così ci chiamavano a Roma, dopo che gli alleati l’anno prima avevano bombardato il quartiere. I miei genitori, sotto sotto quelle bombe, avevano perso tutto: il chiosco di fiori davanti al Verano con cui riuscivano a tirare avanti a fatica, e la casa di via dei Volsci.

Quando ci dissero che le case del Tufello erano libere, con un carretto prestato da uno zio e pieno di ciò che riuscimmo a salvare ci precipitammo a via Tonale. Ovviamente non eravamo i soli ad avere avuto quella dritta, così, al secondo piano del terzo stabile del civico 14 ci stavamo in 10: la mia famiglia con mamma, papà e mio fratello Remo, e i Rossi con le loro 4 figlie. Un casino che durò troppo a lungo.

“Ma come facevate a stare in dieci in una casa!? “- chiede Arianna incuriosita dalla ristrettezza di quegli anni.

“Eh, che vuoi figlia mia, era così che si sopravviveva, era la guerra e io non ci pensavo. Per fortuna avevo salvato una piccola radio da cui ascoltavo le mie canzoni preferite e le note mi salvavano dalle grida degli abitanti delle tre stanze.”

La musica era la mia grande passione, cantavo sempre e, in quei mesi così concitati, con gli americani alle porte per liberarci, era arrivato anche un ritmo mai sentito prima. Con quelle parole straniere gridate al cielo, sognavo di ballare e cantare e per rendere il sogno più vero andavo di nascosto a sentire le orchestrine all’ex cinema di piazza Mazzini.

Nel gennaio del 44 iniziai ad andare a servizio dal conte Salvioli, un vecchio nobile in bilico tra repubblica e monarchia in cerca di redenzione per i troppi favori fatti ai gerarchi fascisti di quegli anni.

Stavo bene a casa del conte. Tutti i giorni partivo dal Tufello e raggiungevo via Oslavia, dove lui viveva. “Pulivo e cantavo” e gli facevo una testa tanta a suo dire, ma la verità è che ero di compagnia. Grazie a me non pensava alla solitudine di una vita ormai non più come un tempo.

Tra gli scaffali della libreria di quella casa c’erano centinaia di libri, tutti dedicati alla storia della musica e ai grandi compositori. La moglie del conte era stata una grande violoncellista dell’Opera di Roma, morta giovane ma in tempo per mettere insieme e custodire un tesoro di note racchiuse in migliaia di pagine. Per me non era proprio un lavoro, attraverso le letture era una fuga da un presente sempre più complicato.

“Ma perché non hai provato a studiare o a cercare di imparare a suonare uno strumento?”

“Mamma e papà non sapevano neppure scrivere, si erano fatti in 4 per farci crescere e non avevano il tempo neppure per dormire, figurati per lo studio dei figli, ma la vita allora era così.“

I pomeriggi all’ex cinema erano il mio palcoscenico da cui sognavo un giorno di poter cantare in pubblico. A volte ci portavo mio fratello Remo, perché papà temeva che potessi dare confidenza agli americani che ormai giravano per le vie di una Roma quasi liberata.

Ma fu un pomeriggio di aprile che vidi arrivare un nuovo artista, un pianista dal ciuffo ribelle e dall’accento napoletano, Salvatore, questo era il suo nome, ed è il motivo per cui voi oggi siete qui ad ascoltare questo pezzo di storia di Nonnanita.

Le tre donne sono unite dal racconto di una vita che ha tenuto stretta una grande famiglia e a cui tutti si sono aggrappati nei momenti più bui. Anita c’è sempre stata in quella grande casa, ascoltando e sostenendo i dolori e le speranze di figli e nipoti, fino agli ultimi giorni di suo marito Tito, un uomo all’apparenza severo, ma dal cuore aperto alla vita.

Oggi è il momento per far pace con un passato che ha vibrato in silenzio per 70 anni, e lasciare andare i ricordi affidandoli a chi saprà farne tesoro.

Nonnanita fa una pausa, si alza dalla poltrona e va verso l’ingresso di casa, sulla vetrinetta fa bella mostra una scatoletta di legno poggiata su un centrino di pizzo bianco.

Di colore chiaro e finemente decorata la scatola ha una linea di pentagramma e delle note disegnate sullo sportellino.

Ecco il mio segreto, la musica che viene da questo carillon è la canzone che il pianista napoletano bello e sfrontato, arrivato a cercare fortuna a Roma, aveva dedicato a me nei lunghi pomeriggi di musica.

Ci siamo frequentati per tre mesi. Lui era figlio di due maestri d’orchestra che insegnavano al Conservatorio di Napoli. Una buona famiglia insomma e una carriera già pronta all’orizzonte nonostante le avversità della guerra, una sicurezza a cui si ribellò e da cui fuggì via perché la sentiva stretta e priva di quella agitazione che un mondo in completo stravolgimento stava promettendo a chi aveva coraggio di andargli incontro.

Lui voleva andare in America e diventare una star di Broadway, diceva sempre, e il destino me lo ha portato prima a Roma dove l’America la sentimmo suonare insieme una sera di giugno. Che notte fantastica che fu.

“Nonna non ci dire cose scabrose” scherza Sonia.

La donna si ferma con lo sguardo pieno di lacrime in un misto di gioia e tristezza, riprende a parlare con le mani che accarezzano il legno di quel cofanetto perfettamente conservato per tanti anni.

Nei primi giorni di giugno del 44, quando ormai erano due mesi che ci frequentavamo di nascosto tra i viali alberati di villa Glori, Salvatore mi disse che il 21 del mese ci sarebbe stato il concerto di Frank Sinatra dedicato alle forze armate statunitensi.

Si sarebbe tenuto all’Auditorium del Foro Italico e lui aveva trovato il modo per assistervi da un loggione abbandonato del teatro. Voi pensate cosa poteva significare per due innamorati come noi della musica: un sogno che si realizzava, un trampolino di lancio verso la sua Broadway e la mia gioia di essere in un mondo diverso.

Salvatore parlava di noi come di una storia ormai certa, io non gli lasciavo troppe speranze, ero chiusa per il peso della sua forza, del suo passato e di una famiglia ingombrante.

La sera del concerto stavamo tornando verso casa, io avevo detto ai miei genitori che il Conte aveva fatto una festa in casa e avevo lavorato fino a tardi. Stavamo sul tram che saliva da valle Giulia e ad un certo punto mi fece scendere a piazza Ungheria. Doveva dirmi una cosa importante, così mi disse e io così feci.

Ci siamo ritrovati davanti la chiesa di San Roberto Bellarmino, l’avevano finita da pochi anni, era bellissima, ci andavo a messa con il Conte e le sue sorelle nelle domeniche in cui ero di servizio.

Salvatore era così felice che gli avrei potuto chiedere qualsiasi cosa e l’avrebbe fatta solo per me. Si fermò sotto un gradino della chiesa, io da quella posizione ero alta poco più di lui. Mi guardò con gli occhi illuminati di gioia e dalla tasca della giacca di cotone dai bordi lisi indossata per l’occasione speciale, tirò fuori questa scatola di legno. Quando l’aprì vennero fuori le note della nostra melodia, la stessa con cui apriva ogni suo concerto.

Io rimasi senza respiro, dal cofanetto prese un anello. Non sapevo dove guardare, se i suoi occhi pieni di lacrime o le sue mani tremanti. Me lo mise al dito chiedendomi di sposarlo e di andare in America con lui.

In quell’istante la piazza si svuotò di ogni rumore, il tram che saliva verso via Nomentana era come sollevato da terra, non c’era più nulla attorno a noi, eravamo in quel mondo che sognavamo da sempre.

Feci un respiro e il cuore si fermò, lo guardai negli occhi così come non ho più guardato nessuno in vita mia e gli dissi una frase che avrebbe cambiato il futuro di due persone: “Salvatore tu non mi piaci poi così tanto”.

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La mia vita e quella di vostro nonno divennero il sipario dietro il quale nascosi tutto.

Salvatore, la mia vergogna di non essere alla sua altezza e la paura di non essere accettata dalla sua famiglia. Mamma e papà non lo seppero mai e voi siete le prime donne a cui ho raccontato il mio amore per quel napoletano pieno di vita e di un amore trascinante.

Le nostre esistenze si separarono quella notte di giugno, in una Roma liberata dal peso dei fascisti ma rinchiusa dentro schemi sociali che hanno tenuto a terra il volo verso l’America di due amanti poco più che ventenni.

Così io adesso dono a te questa scatola, dopo che l’ho tenuta nascosta una vita intera. Dentro ci troverai l’anello del mio Salvatore con la speranza che anche tu un giorno ti possa trovare a un bivio così bello, consapevole che il cuore poche volte si sbaglia e che fermarlo è la guerra peggiore che tu possa intraprendere. Pensa solo a tenerlo libero e felice di battere accanto a chi vorrai.