Un mese alla gara. Trenta giorni di rifinitura e scarico. Gli ultimi parametri in laboratorio hanno confermato una forma fisica non perfetta ma ottimale per correre una maratona a un mondiale. Essere tra i top runners di Berlino ha i suoi vantaggi. Gara il 24 settembre, ultimo mese in quota. Divido la camera in albergo con il compagno della nazionale.
La persona con cui corro da una vita, ci conosciamo bene, ogni allenamento è un confronto costruttivo. Oggi esco per un medio, ritmo gara, test importante, ma preferisco stare solo. Nei momenti che contano il riferimento più duro sono io, con le sensazioni, gli stati d’animo, misurando la voglia che ho di vincere.
Sono le 7.00, nel paese di montagna che ci ospita non gira molta gente, qualche turista pronto per l’escursione, i primi negozi che ricevono i fornitori. Mi dirigo verso la ciclabile a fondo valle, dovrò fare due giri da 10 km.
Imposto il gps e parto, il primo giro lo affronto rilassato ritmo sopra la soglia, stomaco vuoto e testa leggera, mi guardo intorno, alzo lo sguardo e la luce del sole esalta i colori e le forme del Lagorai. Il cielo azzurro crea uno sfondo che verrebbe da toccarlo.
Torno con lo sguardo ai miei piedi, la strada sembra scorrermi sotto. Il passo ormai è a regime, ho quasi chiuso il primo giro in meno di 32 primi, non ho dolori, non ho fastidi, sono una macchina perfetta. Dopo il 3° posto a Londra dell’aprile scorso, mi avevano promesso il podio a Berlino, inizio a crederci.
Sono all’ultima curva, un leggero sali e scendi e poi il rettilineo che passa davanti alla pista di atletica e segna la fine del primo giro.
Scorgo un movimento a pochi metri da me, fra gli alberi, nel punto in cui il sentiero stringe e non lascia molto spazio, rallento e non basta, le mie gambe si inchiodano e mi trovo davanti tre cani. Tre bestie a difesa di un territorio che per una notte è stato il loro regno, e ancora lo difendono. Io sono un intruso, come tale deve essere trattato. Ogni mia reazione è un’azione verso l’irreparabile e la paura ha preso il controllo.
Mi volto nella direzione da cui sono venuto, come unica difesa la fuga, “corri corri”, non penso ad altro, via dal dolore e dal peggior incubo. Correre più veloce è poca cosa, le tre bestie mi sono dietro a pochi metri dalle mie gambe.
L’attacco è improvviso, un morso sulla gamba destra di una violenza mai sentita prima. Le ginocchia si piegano, cado sbatto con il naso contro la staccionata che corre lungo la ciclabile. Stordito e con la vista annebbiata mi giro, cerco di ritrarre le gambe al petto, ma solo la sinistra risponde all’istinto di protezione, la destra ormai non è più cosa mia, la bestia ha affondato le fauci nel polpaccio.
Con la gamba libera scalcio colpendo più volte il cane sul muso, ma sembra non sentire i colpi e anzi stringe il morso ancora di più. Non sento niente, penso solo a liberarmi, ma non finisce, gli altri due cani sono a guardia dell’attacco.
Il sentiero stretto e protetto dagli alberi forma un ring da cui non potrò più uscire, cedo al dolore e finalmente la bestia decide che può bastare.
Con uno strappo mi porta via tessuti e nervi, grido tutto il dolore possibile. Il sangue è ovunque, i tre cani si allontanano, resto solo a terra, vedo la gamba, fa spavento, allungo il braccio per bloccare il sangue, un pezzo del polpaccio non c’è più, ho un buco grande come un pugno chiuso.
La bestia mi ha ucciso, mi ha fermato per sempre, ha difeso un territorio non suo, si è cibata del mio futuro. I colori del Lagorai non ci sono più. Fine del giro.