Figlio e padre in palestra, forza e coraggio

Da circa un mese vado alla stessa palestra dove va mio figlio Riccardo con i suoi amici.

E fino a qui tutto bene, se non fosse che oltre a un problema anagrafico c’è pure questa cosa che in palestra devi cambiare completamente approccio con il tuo fisico e con tuo figlio.

Non sto qui a disquisire su tecnica e carico muscolare, o adolescenza e paternità, so solo che la decisione di trascorrere un inverno a tirare su manubri, bilancieri e restare incastrato con le gambe in una macchina per i quadricipiti è figlia dell’età e perché ascolto sempre chi ne sa più di me, anche nello sport.

Quando sono in sala pesi, con accanto gli amici di mio figlio, belli come solo a 18 anni possono essere, i milioni di chilometri corsi in 30 anni di podismo non servono a niente.

Non te li riconosce nessun “ufficio brevetti dello sport amatoriale”.

In quelle ore di fatica sei al cospetto di ormoni poco più che maggiorenni, sperando solo che ci possa essere un effetto induzione su te stesso che, ormai stanco e sconsolato, non speri altro che la scheda di allenamento finisca il prima possibile per poi andare a cena e, finalmente, sul divano.

Quando arrivi in sala pesi ti devi muovere con circospezione, fare attenzione a tutta quella massa di ferro che ha spigoli, pesa e ha delle regole d’uso che con il tempo farai tue.

Quando provi a capire come montare un bilanciere senza farlo cadere sui piedi dell’istruttore, o come si legge la scheda senza occhiali da presbite, con geroglifici fatti di isometrie, recupero, pesi incrementali e macchine infernali si sono già fatte le nove di sera.

A nulla è servita la sfilza di magliette delle tue gare che sfoggi ogni volta, lì dentro non sono ciò che speri, non sortiscono alcun timore reverenziale.

Lì dentro esiste solo un logo, che è quello del baffo che campeggia su tutto ciò che i ragazzi e le ragazze indossano e, così, le maglie del tuo triathlon, delle gare in montagna e delle maratone cittadine sono solo scritte colorate su profili di città in giro per il mondo.

Ma c’è una cosa che ho capito, e riguarda la musica che riecheggia in sala pesi.

Quando ho iniziato a frequentarla ero rimasto entusiasta della selezione, e mi dicevo “Ah belli i Queen, Don’t stop me now è proprio ciò che ci vuole”, poi in sequenza i pezzi di Eminem completavano il ritmo per le ripetute.

Così, giorno dopo giorno, la playlist era sempre la stessa, in un replay invasivo che distoglieva invece che fare concentrare, e la ragione è semplice, tutti usano le loro cuffie, da cui ascoltano la loro musica e te che di Bohemian rhapsody non ne puoi più, ti senti come quei personaggi con accappatoio bianco e ciabatte che si muovono spaesati in una clinica svizzera dei guru del recupero psico fisico per ricchi imprenditori del caffè.

Allora amici cari, non date retta a chi vi dice che siete troppo vecchi e stanchi per cambiare, per mettervi in discussione e, a volte, a disagio accanto ai vostri figli, ma provate a fare dei vostri muscoli strumenti utili che vi serviranno per sollevarvi dal divano dopo i 70 anni.

Osate e usate tutti i mezzi che lo sport ci mette a disposizione e consolatevi con il fatto che gli amici di mio figlio, dopo più di un mese hanno iniziato a salutarmi, dandomi del Voi.

Coraggio, ce la possiamo fare.

Marco Raffaelli
Appassionato dello sport e di tutte le storie ad esso legate. Maratoneta ormai in pensione continua a correre nuotare pedalare parlare e scrivere spesso il tutto in ordine sparso