Per la nefasta influenza del nostro sistema formativo, veniamo indotti ad “insistere” solo dove si ravvisa (non-si-sa-bene-da-parte-di-chi) che esiste qualche possibilità di “riuscita” se si punta tutto sulle carte che si hanno in mano.
Donde, il giovane che tira bene il pallone, lo si indirizza verso quella strada (facendo atrofizzare ogni cellula cerebrale potenzialmente destinata ad altro scopo); colui che, invece, mette insieme aggettivi, sostantivi e pronomi, è destinato a quelli che un tempo si chiamavano lavori “scritturali”, e così via.
In evidenza, una netta separazione tra lavori del “corpo” e lavori “dello spirito”, sicché l’intellettuale è descritto come un celenterato incapace di sollevare da terra neanche la sporta della spesa; l’operaio (nel senso che “opera”, non che lavora in fabbrica), il fisicato in canotta che si balocca con un sacco di cemento 425.
Viene richiesto, dunque, di limitare i nostri campi di azione e di specializzarci in pochi campi. Abbiamo così prodotto veri geni della fisica che non sanno cuocere un piatto di spaghetti, uomini di affari incapaci di portare i figli al parco, donne (in carriera o meno) che non sanno correre neppure per mezz’ora, in un trionfo di miope settorializzazione.
Restringere i propri orizzonti è funzionale, secondo la regola della migliore allocazione delle risorse, a ricercare la perfetta efficienza in un’unica attività che poi costituisce la base della propria vita. Ma, questa, a ben guardare, costituisce la morte della vita stessa che, solo in poche limitate ipotesi, prevede una marcata specializzazione. In tempi andati, la vita (che durava molto meno di oggi) richiedeva un adattamento che oggi nessuno ricorda più. Per esempio, a dispetto della storiografia menzognera e mortificante, le donne erano “deboli” solo nella condizione di madri, non in assoluto, dato che combattevano per vivere tanto quanto il sesso “forte”.
È nella sintesi della voglia di misurarsi su campi diversi che risiede la vera essenza dell’essere “vivi”. Lo scrittore Murukami, dal fisico minuto, non è soltanto un famoso scrittore, ma anche uno che, normalmente, disputa una ventina di ultramaratone ogni anno (esattamente: le 100km) e gli esempi potrebbero continuare.
I campi “diversi” devono essere collegati al rapporto tra spirito e corpo e non confinati in uno solo dei due ambiti.
In questa dimensione va inquadrata – a mio modesto avviso – l’attività podistica, come un completamento in cui si interfacciano, in un reciproco scambio, elementi che costituiscono il nostro “insieme”. Lo sport non è una parentesi tra le “vere” attività che ci riguardano ma un modo in cui lo spirito dialoga con il corpo e, vicendevolmente, “capiscono” chi sono.
La corsa non è nata come sport ma come attività “militare” per poi perdere questo carattere (come per tutti gli sport che in precedenza costituivano expertise necessarie al combattimento) ed assumerne un altro: quello “sportivo”. Da questo nasce il problema enunciato all’inizio.
Lo “sport” nel senso più nobile finisce per essere appannaggio di coloro che, per qualche mistero, sono migliori di altri. Sicché il keniano, che probabilmente sarebbe vissuto di stenti, corre le maratone e, normalmente, non fa il poeta. Per tutti gli altri, parlare di “sport”, esagerando questa caratterizzazione, lo pone ai margini della vita “ordinaria”, quale stravaganza accettata dagli altri, ma non pienamente compresa. Non è così.
[Colonna sonora: l’intero album di Vestron Vulture, Quarter-Life Crisis].