“Parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse” dice un fenomenale Jack Nicholson (candidatura oscar per miglior attore non protagonista 1970) ad un altrettanto magnifico Dennis Hopper in uno dei film cult americani che ho avuto il piacere di vedere, per la prima volta (e si lo confesso ahimè), qualche sera addietro, in piena pandemia.
Ascoltare quel dialogo è stato come ricevere un pugno allo stomaco, inaspettato e incomprensibile.
Jack, che nel film interpreta l’Avv.to George Hanson, spiega a Dennis, alias Billy, che non sono i suoi lunghi capelli a spaventare la gente ma ciò che lui con il suo stile rappresenta: la libertà.
E’ un dialogo breve di 1 minuto e 48 secondi
in cui il terrore, il fastidio, l’insofferenza e l’intolleranza che provoca un individuo libero, sono spiegati in maniera egregia, in particolare nella riflessione che non bisogna mai palesare a un individuo non libero che egli in effetti non lo sia, non bisogna mai renderlo consapevole della terribile mancanza che egli reca con se.
Non lo metterà in fuga, non lo farà scappare, dice Billy, ma lo renderà pericoloso, afferma Hanson, perché si darà un gran da fare per dimostrare il contrario (e cioè che Egli è libero), financo uccidere.
Nella scena successiva si fa spazio la violenza annunciata e il personaggio interpretato da Jack Nicholson perde la vita in un pestaggio a sorpresa, codardo come l’odio che rappresenta.
Il film prosegue nella descrizione di un’America irreale, psichedelica che, tuttavia, lascia la scena al suo alter ego arretrato e folle, a causa del quale i due motociclisti finiscono per perdere la vita.
Restano vittime di un’idiozia paesana che non arriva nemmeno ad essere consapevole dell’invidia che reca lo stato di libertà dei protagonisti, ma che sulla scia di quel sentimento vivo e ignaro di sé stesso, si fa attrice di una pazzia raccapricciante come lo sparare ad una motocicletta, senza considerare che il conducente possa, per il colpo inferto al mezzo, morire.
Il film si chiude in un finale sorprendente, doloroso, che non lascia speranze né illusioni rispetto alla grettezza di certe menti, ma soprattutto rispetto all’animo umano.
Ecco che quel pugno allo stomaco si è ripresentato giorni dopo, in tutta la sua evidenza, quando di fronte alle scarpe da corsa ho capito che le persone in finestra che hanno urlato contro i runner, quelli che sono addirittura scesi in strada a inveire contro i podisti, quelli che si sono spinti fino al pestaggio di uno di questi, non hanno la loro matrice nella pandemia che stiamo vivendo.
Il sentimento che li motiva è vecchio come il mondo. Ciò che li spinge non è la paura del virus, ma una paura molto più pericolosa, e molto più atavica: è la paura della libertà e del coraggio che le persone libere custodiscono riposto nelle tasche del loro abito di vita, in questo caso i pantaloncini da corsa.
Colpevoli di correre quindi, di essere liberi, e di mettere chi non è libero di fronte ad uno specchio, proprio come ha fatto Billy, questo è il reato del runner…
Perché Correre è un gesto libero, è un movimento per la libertà nella sua innata democraticità, è una scelta verso uno spazio vuoto e pulito, è un grido di verità che urla la sua preferenza per la vita.
Ed è questo che non si perdona a chi corre, è questo che si invidia da sempre, nelle frasi stizzose che da un’eternità sopportiamo: “ma corri troppo, ma perché ti sbatti tanto, ma perché non resti sul divano”… ma perché non muori che mi dai fastidio…
E forse moriremo ma non di Covid 19, no, forse moriremo come Billy e Wyatt a cavallo della loro motocicletta, con il vento che accarezza i capelli e sfiora l’anima senza pensare di fare qualcosa di sbagliato, nell’inneggiare, semplici e ingenui, a quella libertà indispensabile per una vita da vivere con dignità…
Con coraggio, sempre, buone corse.
Chiara Agata Scardaci