Correre nel paese dove si è passata l’infanzia è un tuffo nella memoria. Si tratta di una località calabra – di circa 3.500 anime – , della quale conosco a menadito ogni anfratto. Ogni anno, il periodo delle vacanze estive, lo passavo qui.
All’epoca si camminava molto, assieme ai compagni di allora, conosciuti da tutti. Perché nei paesi (come il mio), ognuno ha un soprannome che connatura qualche particolarità della famiglia, sicché appena nato, sebbene nessuno (tranne i miei genitori), mi avesse ancora visto io già ero il nipote del “Suonatore” e della “Levatrice”. Per cui, bastavano questi soli indizi, a far presente che, pur venendo da Roma, le nostre origini erano comuni. Anzi, con molta probabilità, mia nonna l’aveva fatto nascere per delle insospettate abilità in quella che “di mestiere” era una contadina dell’Aspromonte.
Detto ciò, in occasione di un lungo fine settimana dedicato ad incombenze familiari, non avendo alcuna voglia di camminare, ho portato canotta e calzoncini. Ho fatto solo più in fretta. Beh, non troppo, dato un caldo ragguardevole.
Corri di qua, corri di là, corri di sopra e corri di sotto… vedo uno scenario senza alcun senso. Un paese, senza un futuro per i giovani, che però costruisce nuove case destinate a restare vuote. Chi dovrebbe abitarle? Se potessi mettere le mani addosso al competente assessore, l’ergastolo per me sarebbe assicurato. Invece che trovare delle “leve” per dare un indirizzo al futuro, si insiste in un vezzo politico che è quello di immaginare di “autorizzare” delle fonti di reddito immobiliare. La cittadina è ora punteggiata di palazzi di 6 piani, laddove l’abitazione media è di due soli piani. Perché?
Un senso di tristezza avvolge questa mia corsa. E ora il caso di tornare indietro. Ma, prima, un passaggio dalla Via del Borgo, dove è ancora in piedi, nessuno sa dire come, la casa dei miei bisnonni. Non certo una villa palladiana, ma una casupola che non avrebbe sfigurato affatto nel Pinocchio di Comencini. Nel “Borgo” (la parte storica della cittadina) le case erano tutte così, con il bagno sul terrazzino, con il tetto in lamiera. La metà di queste, peraltro, è venuta giù nel terremoto del 1908.
Un tempo le persone, ad una certa ora, sedevano fuori casa con una sediolina e si raccontavano le “notizie”. Mi fermo di fronte alla casa, al n. 14, e tocco la porta in legno come per salutare tutti quelli che l’hanno vissuta. Una signora anziana: “Non ci abita nessuno”. “Si, lo so”, la replica.
Interrompo la corsa, per farmi “riconoscere” e quello che apparentemente sembra uno stravagante “straniero” ritorna ad essere un “figlio” ritornato a casa.
Quella stessa mattina, con un mio compagno di giochi che non vedevo da 47 anni, ci siamo riconosciuti e preso assieme un caffè.
Tempi che non saranno mai più. Ma è necessario ricordare da dove veniamo per capire dove possiamo andare. E, correndo, possiamo andare dappertutto.