Tra le molte cose che ci accomunano vorrei spendere qualche minuto su una in particolare: corriamo molte volte le stesse gare.
Da podista laziale (nel senso della regione…) ho disputato numerose “Tre Comuni”, “Mezze dei Castelli”, “Corse di Miguel”, “Rome Ostia”, etc. e voi avrete fatto, sicuramente, altrettanto.
A coloro ai quali non piacciono le novità, un contesto ben conosciuto aiuta, senza alcun dubbio, ad affrontare più facilmente la gara; gli altri patiranno, al contrario, un vago senso di “già fatto”, di mero adempimento ai dettami del calendario podistico (e sociale).
Per la verità, a parte i cambiamenti dei percorsi, le stesse gare non sono mai esattamente le stesse.
Ciò perché, se anche astrattamente la gara rimanga immutata, non accade ugualmente alla nostra persona. Corriamo nel tempo e quest’ultimo, per definizione, non ammette il senso contrario. Ogni giorno abbiamo a che fare con una nuova versione di noi stessi, che può essere migliore o peggiore della precedente ma mai uguale. Solo per questa realtà fisico-fisiologica anche la “stessa” gara, nel tempo, la corre una persona affatto diversa. Per semplicità lascio da parte ogni altra variabile che incide sul fenomeno “gara” e che non faticherete ad individuare.
Il nostro cervello, però, non la pensa così. Per il suo corretto funzionamento ha la necessità di incasellare gli eventi, associare ad essi delle risultanze, dopodiché ripresentare l’esperienza “archiviata” per semplificarci tutte le correlate scelte che (astrattamente) dobbiamo compiere. Si tratta di un albero decisionale ridotto all’essenziale che offre soluzioni già “codificate” affinché non si debba ripercorrere ogni volta l’intero flusso delle scelte decisionali che sarebbero necessarie. Detto in altre parole, operiamo per semplificazione dei problemi, saltando ogni passaggio che possa essere recuperato dall’archivio del passato.
Secondo il taoismo occorre ogni giorno imparare e, quindi, accumulare conoscenze. Durante lo stesso giorno occorre alleggerire questa accumulazione. La stessa “ricetta” costituisce uno dei capisaldi del buddismo zen che individua tre fasi della conoscenza: all’inizio le persone sono ignoranti e semplici; poi iniziano ad imparare e diventano complesse (e, spesso, rompipalle); infine, dovrebbero abbandonare l’eccessivo bagaglio culturale per tornare alla semplicità. Ma c’è una profonda differenza tra la semplicità iniziale e quella alla fine del percorso. La prima è rozza, istintiva e priva di conoscenza mentre, la seconda, è la risultante dell’abbandono delle nozioni in eccesso, avendo introiettato quelle connaturate al sé che, cioè, fanno parte della nostra essenza.
Anche nelle nostre gare – le stesse gare che, poi, come visto, sono ben lungi da essere le stesse – dovremmo, più o meno, comportarci con le stesse modalità. Il suggerimento è, quindi, quello di lasciare cadere le aspettative fondate sulle esperienze precedenti e cogliere la complessità e le opportunità del momento presente.
I fautori della mindfulness la chiamano “la mente del principiante”.
Questa “mente” è quella che si schiude all’esame della prima volta, dove guardiamo i dettagli e l’insieme senza i preconcetti dell’”esperto”; che appare “focalizzata” invece che “distesa”. La curiosità caratteristica del bambino che, con gli occhi spalancati, si stupisce per ogni “novità” e, soprattutto, non ha nessuna categoria archiviata per leggerla. Utilizzando “la mente del principiante” – una apertura del nostro mondo interiore – nasce la possibilità di sperimentare nuove emozioni, entrare in contatto con l’inaudito e con l’inatteso. Scopriremo, così, che la “realtà” non è un dato fattuale ineluttabile come crediamo ma, al contrario, è ciò che noi ricaviamo quale elaborazione del nostro essere. Sicché due persone, di fronte alla stessa “realtà”, potrebbero vederla e leggerla in modi completamente diversi.
Ogni occasione – fosse pure la ventesima partecipazione alla “Corsa dei Santi” – potrebbe essere piena di sorprese, se solo lo sguardo esulasse dal mero asfalto e dal gonfiabile laggiù…