Contrariamente a quanto si creda, perdendo non si impara affatto a vincere. È vincendo che si impara a vincere. Un apparente controsenso che nasce dal cortocircuito tra la realtà ed i discorsi da bar (dello sport).
Nei discorsi dei nostri filosofi, di fronte a cappuccino e cornetto, il luogo comune è che si “impara dagli errori”. Una narrativa sulla quale vi troverete senz’altro d’accordo perché, sin da piccoli, ci è stato insegnato che la crescita individuale passa, necessariamente, per una valutazione degli inevitabili errori nei quali siamo incorsi. In effetti, considerato che nessuno – almeno su questa terra – è immune dall’errore, finiamo per condividere una esperienza – negativa – che concorre ad accomunarci nella nostra natura umana.
Di qui, un principio che diventa una massima di vita.
Poi, mentre state correndo, ci pensate un attimo meglio e …. scoprite cosa non funziona in questa prospettazione, nonostante la sua consolidata validità, derivante più del numero dei fautori che non dalla intrinseca validità.
Da un errore cosa impariamo? Anzitutto ne traiamo una lezione, per così dire, al negativo. Impariamo cosa non fare, almeno nella stessa situazione nella quale è emersa la conseguenza erronea. Io, ad esempio, volevo essere un “buon” capo (ammesso che ciò abbia un reale e costante significato). Sicché ho semplicemente ribaltato il comportamento del mio capo di allora che, utilizzando tecniche manipolatorie da regime vetero comunista, tentava sempre di “fregare” il malcapitato di turno, incapace di reagire con prontezza, al campo minato dialettico.
Ragionare alla rovescia ha fatto di me un buon capo? Dal punto di vista etico posso affermare con certezza di essere molto migliore di quanto lui sia mai stato. Ma un capo deve essere benvoluto o raggiungere i risultati che si è prefisso?
Cambiando l’ordine dei fattori, anche il risultato cambia. Non condividevo (e non condivido tuttora) la sua condotta ma non posso non constatare che raggiungeva il risultato (certo, a spese del suo personale ma, nelle guerre, qualcuno ci rimette la pelle). Per cui, è il risultato che fa la differenza dal punto di vista sostanziale. Il resto sono sovrastrutture di tipo personale che possono essere messe da parte in un attimo, se ciò fosse maggiormente conveniente in un dato momento storico.
Torniamo a noi. È dalle vittorie che si impara a vincere. Colui che perde, può, al massimo, sapere, più o meno, perché ha perduto ma non è certo che sia in grado di modificare radicalmente la sua condotta per conseguire il successo. Ciò, perché non ha la più pallida idea delle motivazioni (e della situazione, etc.) di colui che ha vinto. Se non fosse così, il problema neppure si porrebbe.
Colui che vince non soltanto sa perché ha vinto, ma conosce anche le ragioni che hanno portato gli altri ad essere sconfitti. La vittoria (intesa, in termini ampi, quale condotta “positiva”) è, dunque, la vera maestra di vita. Il successo è una grande fonte di apprendimento e di crescita perché ci insegna che cosa ha funzionato, quali sono le energie positive e come raggiungere il risultato utile.
Trasponete quanto detto nel nostro universo, ad immagine dei podisti, e rapportatelo a tutte le volte che non avete superato il vostro personal best o, quando, pur potenzialmente possibile, non avete neppure lambito il tempo prefissato per la maratona o, quando, ancora più facilmente, il vostro compagno di squadra – del tutto simile a voi quanto a prestazioni – vi ha battuto sonoramente.
Il primo pensiero – a parte il campionario di scuse di rito – è che bisognava impegnarsi di più. Invertendo il flusso del ragionamento, celebrate il successo, e chiedetevi come sia stato possibile conseguirlo e ne scaturiranno elementi di riflessione di maggiore pregnanza.
Oggi, tra l’altro, avete imparato almeno una cosa: i filosofi da bar possono avere torto