E lo sai già: qualunque attrezzatura super-tecnica deciderai di sfoggiare, ci sarà sempre quell’amico espertone pronto a guardarti con sufficienza e dirti: “Non va bene niente.” Che tu indossi scarpe da trail con suola in vibranio o una maglietta spaziale che promette di mantenerti fresco come in orbita, per lui qualcosa non andrà mai.
Magari ti sei allenato ogni weekend sulla sabbia di Coccia di Morto, seguendo religiosamente le tabelle di allenamento di Sua Maestà Marco Olmo. Ma sappi che arriverà il momento in cui, colpito dalle folate del Simun – il vento rovente del Wadi Rum – griderai: “CHI CAZZO ME L’HA FATTO FAREEEE!”
Correre nel deserto è un’illusione, un miraggio, una fatica travestita da avventura esotica. Ed è per questo che da mesi ripeti il mantra: “L’uomo non ha paura di morire, ha paura di soffrire.”
Hai dato retta all’amico che ti ha detto: “Dai, sono rimasti pochi pettorali!” E lo sai già che te ne pentirai. Lo capirai esattamente al 17° chilometro, in cima a una duna sabbiosa, con la bocca arsa dalla sete, i piedi martoriati da vesciche e sassi.
In quel momento realizzerai che la corsa nel deserto non fa per te. Maledirai la sabbia, il caldo, le iene, gli sciacalli e perfino l’aquila di Verreaux che ti orbita sulla testa. Ma soprattutto, maledirai quell’amico. Ex amico, per la precisione.
Nel frattempo ti documenti come puoi, tra i film – da Lawrence d’Arabia a Indiana Jones – e le puntate speciali di Alberto Angela nei deserti del mondo.
Intanto, i tuoi amici – quelli veri – se ne stanno comodi al ristorante, ridono di te e commentano il tuo progetto. Rievocano le disavventure di Marco Prosperi, quello che si perse per una settimana nel deserto e si salvò… bevendo pipì.
Alla salute, amici miei, dici. Con un sorriso stanco e un vago senso di terrore.