Se l’hai già fatto, lo puoi rifare

Quando a dicembre ho ricevuto la mail che mi diceva che avevo vinto il pettorale per la Maratona di Tokyo, la prima reazione è stata entusiasmo. La seconda, panico.

Si perché, malgrado il colpo di fortuna, ero consapevole che una maratona senza preparazione non è mai una grande idea. Anzi.

E se c’è una cosa di cui ero certo, era che negli ultimi mesi avevo corso poco, pochissimo. Non ero nelle condizioni ideali per affrontare 42 km in un colpo solo, visto che ne ho fatti di media 40km al mese negli ultimi 12 mesi, e stavo con una infiammazione ancora forte al nervo sciatico.

Eppure, c’era qualcosa che mi diceva che in qualche modo sarei dovuto andare e non perdermi questa esperienza, e arrivare al traguardo. Non perché il fisico fosse pronto, ma perché la testa avrebbe portato le gambe dove non sarebbero arrivate.

Seppur non ricordi dove l’ho letto o sentito, quello che mi rimbalzava in testa era che “La maratona, alla fine, è una questione di memoria”.

Non quella memoria che ti fa ricordare le strade o i passaggi migliori, ma quella che il corpo e la mente costruiscono con il tempo e che rimane impressa profondamente dentro di noi.

Ogni distanza allungata di un km in più, ogni lungo corso, ogni muro superato, ogni volta che pensavi di non farcela e invece hai continuato, lascia un segno. Indelebile. Come fosse uno schema ormai imparato. Ed è quel segno che ti permette, un giorno, di affrontare qualcosa che sembra più grande, come una maratona, senza allenamento, ma sapere che, in qualche modo, la porterai a casa.

Se riguardo indietro alla mia beve storie da runner, questa cosa deve esser successa in più momenti che mi sono tornati in mente durante i 42km in quelle strade di Tokyo.

La prima deve esser stata la sfida “40 anni, 40km”, nel 2016, quando dopo avermi insegnato a correre, Marco, mi portò da zero a 10km dopo pochi mesi. Mi sembrava di aver fatto già una cosa impossibile, tanto da pensare che non aveva senso andare oltre. Eppure da lì 10km hanno preso il sapore di qualcosa di normale.

Un altro segno che mi è tornato in mente deve esser stato quando, alla 30 km di Fiumicino (la prima volta che provavo una gara così lunga), al 17° km mi sentivo volare e ho detto a Marco “Io vado” lasciandolo indietro, per poi ritrovarmi al 28° con la lucidità di un bradipo, salvato solo dallo stesso Marco (e Lisa) che mi hanno ripreso e portato fino alla fine.

O ancora, è forse la volta in cui ho capito che cosa significasse sentire corpo e mente seperati, alla mia prima maratona, Firenze 2016. Il mio primo vero muro al 33° km. Le gambe bloccate, la testa che diceva che era finita, con una sensazione di totale perdita del controllo di cosa volessi e potessi. Poi la voce di Marco nelle orecchie: “Riparti, manca poco” ed una pacca sulla spalla che ancora la ricordo come un tuono. E alla fine siamo arrivati sotto il diluvio ed un freddo assurdo: due metri dopo il traguardo ricordavo solo la felicità di aver finito la mia prima maratona, niente altro.

Ed è per questo che quando la domenica mattina prima di Tokyo, incontrato Marco per caso in centro vicino al Colosseo, nella mia unica uscita pre Maratona, mi ha detto: “Vabbè, è come la vuoi affrontare senza allenamento? Parti e divertiti”.

In effetti, che aggiungere? Non mi sono nemmeno posto il problema, e alla maratona di Tokyo sono partito (molto allegro, anche troppo) e me la sono goduta (fino al 22km bene quando poi è scoppiato il dolore di nuovo), sapendo che in qualche modo sarei arrivato (si, con qualche bestemmia in giapponese credo), ed un risultato non proprio terribile di 4h 30 che è finito in secondo piano rispetto alla bellezza di esser arrivato alla fine.

In questo viaggio però c’è stato anche un altro aspetto che mi ha portato alla fine: le tappe.

Vedere la mia famiglia, per la prima volta, al 13°, poi al 32° e infine pochi metri prima del traguardo e una amica a metà percorso è stato un promemoria potente.

Perché una maratona, come vuole anche il regolamento stesso, è fatta di checkpoint e punti di passaggio, proprio come la vita. E allora è giusto dividerla a fasi e affrontarle una per volta.

L’ho vissuto esattamente in questa maratona: ci sono momenti in cui devi solo arrivare al prossimo punto, sapendo che lì troverai qualcuno che ti aspetta, che ti sostiene, che ti ricorda perché stai correndo.

E così, con il sorriso e l’orgoglio che ci abbraccia in quei metri prima e dopo il traguardo, arriviamo al punto vero: la maratona è una metafora perfetta di tutto il resto.

Non è questione di essere sempre pronti, perfettamente allenati, senza incertezze. È questione di sapere che possiamo farcela, anche quando tutto sembra dire il contrario.

Perché l’hai già fatto.

E se l’hai già fatto, puoi farlo di nuovo.

Ma se non l’hai fatto, non puoi non provarci almeno una volta.