A dispetto di quello che si pensa, non sono un fissato sulla tecnologia ma vorrei che questa fosse al mio servizio e non il contrario. Esiste tuttavia una eccezione notevole. Questa eccezione è costituita dal “Garmin” (termine inteso quale sinonimo di quegli strumenti che usiamo per misurare l’attività sportiva, nonostante sia davvero proprietario di un Forerunner 245, acquistato da LBM per un tozzo di pane) al quale ho reso disponibile ogni mio dato.
Dall’altezza, al peso, alla pressione, al ciclo veglia/sonno, all’idratazione, al tipo di scarpe. Non condivido i dati con altri podisti (né attivo “sfide”) ma li ho consegnati al cloud (non-si-sa-dove) con l’autorizzazione alla loro “vivisezione” su ogni dettaglio. Il perché è evidente: voglio sapere di che morte (podistica) si debba morire. Se proprio è il caso.
Dopo ogni corsa, pure quella per andare al supermercato, scandaglio tutti i dati cercando qualche correlazione, qualche inferenza che possa sfuggire ad un occhio distratto. I lap, la falcata, la frequenza cardiaca… Ne ricavo un quadro sconfortante, ossia quello di un pensionato anticipato che, invece di restare confinato su una panchina al parco, pretende di svolgere una qualche attività sportiva. Ma, insisto, in attesa di vedere qualche tiepido segnale di ripresa. Di quando in quando il sistema ti dice che hai superato uno dei tuoi record. Beh, “record” è un termine immaginifico, pari ad una pacca su una spalla effettuata da un prozio (tutt’altro che ex maratoneta).
Quello che mi affascina sono le interazioni con il sistema.
Cominciamo dai settaggi. Se non si fa attenzione, si finisce per essere “ragionati” all’americana, sicché il nostro beneamato chilometro (più lungo di quanto si pensi, quando si corre), diventa il miglio, ossia una ‘briscola’ di 1600 e rotti metri. Per intenderci, tutta Via del Corso, per chi corre a Roma.
Anche sul peso, il buon vecchio chilo, croce e delizia del nostro corpicino, può galleggiare appresso a misurazioni anglosassoni, finendo per essere configurati a misura di un bambino il cui lap è di più di 1,5K. Cose così.
Altri accadimenti notevoli. Se il satellite non dà segni di vita, tutta la vostra corsa è del tutto approssimativa. Non si sa dove siete e vi compare l’immagine di un divano, cioè di dove eravate prima di indossare le scarpette. Alla fine, controllate la mappa e scoprite un curioso effetto “teletrasporto”: improvvisamente siete comparso a 4 chilometri da casa.
Anche l’orario è un dato tutt’altro che certo. Il Garmin non vive di vita propria ma si alimenta dalle “connessioni”, senza le quali vi tocca chiedere l’ora esatta al primo passante. Lui vi guarderà con lo stesso sentimento con cui si osserva un coleottero, interrogandosi del perché abbiate al polso un artefatto che sembra proprio un orologio. Poi vedendovi in canotta, capirà che c’è qualcosa che non va in voi e non nel suddetto armamentario tecnico.
Prima di partire per l’agognata sgambettata possono giungervi anche consigli del tutto sensati. Un pomeriggio, pronti al via, sullo schermo compare il seguente suggerimento: “Oggi riposo!”. Anche Lui ci si mette! Già la voglia era risibile, se pure lo strumento rema contro… Non ho mai capito da dove abbia tratto questo convincimento.
Dopo qualche passo, vi compare il “range” della vostra (ipotetica) forma. Dai riscontri negativi a +5 è tutto un programma, che non pare affatto parlare di noi. Sono ridotto ad un cencio, eppure, dopo aver ricevuto un +3, come si fa a sconfessare il cloud? Per qualche motivo ignoto, ne sa più di noi e, questo fatto, è ineludibile. Via, dunque, a pedalare, anche se le gambe – a nostro modesto avviso – non girano, perché pesanti come piombo. Ma chi siamo noi per pretendere di sapere come ci sentiamo?
Dopo qualche periodo, più o meno lungo di tortura, è il momento di chiudere. E subito dopo, arriva il responso: tempo trascorso, chilometri percorsi, … e infine il training effect. Abbiamo corso, oppure abbiamo guardato le vetrine? Il risultato è costituito da questo stravagante “effetto” per il quale, dopo aver scrutinato le istruzioni, ho scoperto che se non ci sono “variazioni” nel moto, cioè momenti in accelerazione, non si è raggiunto l’obiettivo che il sistema pretende. E, sia chiaro, noi stiamo correndo al suo servizio. Una corsa a velocità costante risulta essere, più o meno, la “morte” podistica, ossia una situazione di appiattimento totale, seppur condotta – volesse il cielo! – alla ragguardevole velocità di 4min/km.
È il momento di “collegare” lo strumento al sistema. E, qui, arriva il premio. Secondo la regola della gratificazione, scoprite che avete conseguito il “badge” come migliore tapascione della settimana. Una bella soddisfazione, indubbiamente.
Prodigi della tecnica ma, io, insisto. Alla fine, non so quando, registrerà esattamente il risultato fattivo dei miei desideri. Battito più, battito meno …