Scrivo queste note, a caldo, come “reduce” dalla 6 Ore di Roma. “Reduce” e “caldo” già offrono un paio di elementi notevoli e non vale proprio la pena di aggiungere altro. Queste righe sono, per lo più, una dichiarazione di affetto e, come tali, vanno intese.
Partendo dall’inizio, nella notte tra il 13 e il 14 luglio si è disputata, in quel di Villa de Sanctis, la Quinta edizione della “6 Ore di Roma” intitolata alla memoria di Antonio Raso. Una gara che va sostenuta, come tutte le manifestazioni, in cui appare evidente che, dietro, c’è della follia. Gestire una iniziativa del genere, infatti, reca molte comprensibili complicazioni organizzative, a cominciare dal necessario numero limitato dei possibili partecipanti poiché, in un percorso di 1.000 metri, troppe persone non possono proprio “entrarci”.
Assieme ad un manipolo di scriteriati che hanno partecipato all’edizione “0” posso fregiarmi, con malcelato orgoglio, della maglietta che “dichiara” che alcune iniziative vanno supportate affinché, anche nel provinciale panorama romano, siano auspicabili iniziative di pregio. Il pregio, a mio modesto avviso, è – oltre alla già segnalata follia – la totale assenza di un’ottica legata al lucro. A Roma, ogni tanto, compare qualche gara (e poi scompare) il cui scopo del tutto prevalente è quello di “fare cassa”, ovviamente alle spalle di un podista assunto quale mero bancomat. Avete compreso a cosa mi riferisca, senza quindi il bisogno di insistere oltre.
Occorre aggiungere che l’assenza di un fine di lucro non significa affatto che non vadano assunte decisioni d’ordine economico, ma solo che queste sono controbilanciate da quella “amatorialità” che dovrebbe essere la “cifra” del podismo non professionistico. Emerge, tuttavia, anche l’altra faccia della medaglia (che, per inciso, alla “6 Ore”, è una “briscola” di 236 grammi, con le dimensioni di 4 medaglie medie), e cioè che i partecipanti non focalizzano adeguatamente la dimensione “sociale” del fenomeno. Non tutti almeno. Lo dico con cognizione di causa, avendo scoperto quante rotture di scatole derivano dalla velleità di essere presenti di alcuni di noi, in barba allo spazio disponibile che alla assenza di un predominante fine di lucro.
Detta così, appare una frase ad effetto ma priva di contenuti e, quindi, tocca essere didascalici.
Un mese fa vengo contattato, non senza difficoltà, dal Gianluca Adornetto che, per i questuanti che si svegliano all’ultimo minuto e “pretendono” di partecipare, ha dovuto contattare tutti i casi “dubbi”, al fine di verificare se fosse recuperabile qualche pettorale. Il sottoscritto si era iscritto nel mese di dicembre ed aveva anche regalato l’iscrizione a due persone care. Solo che si trattava di un “buono” e non dell’iscrizione vera e propria. Per via di faccende familiari sulle quali non è dato qui intrattenervi non mi ero per nulla accorto di ciò e, di fatto, non avevo perfezionato l’iscrizione benché ne avessi anticipato il prezzo. Ciò avrebbe implicato la restituzione del costo, la riallocazione del pettorale, etc. Tutto è stato “sistemato” benché, nonostante scriminanti umanamente comprensibili, avessi ogni totale responsabilità sull’accaduto.
Con la scusa di questa faccenda mi permetto di esplicitare un suggerimento su come andrebbe sviluppato il pricing di questa gara, tenendo conto di non conoscere per nulla il punto di pareggio.
Dal momento che costituisce una iniziativa particolare – nella quale, come ribadito, il fine di lucro non è la spinta – il numero dei partecipanti, mettiamo 200, va strutturato in tre gruppi. Il primo gruppo di 100 podisti va “invitato” a partecipare, con un tempo limite per corrispondere la quota. Questo gruppo è costituito da quanti hanno partecipato ad almeno 3 edizioni (poi, a scalare, 2 edizioni, etc.). L’importo, poniamo di 25 euro, non è ripetibile e, qualora non si partecipi, costituisce una sorta di “donazione” per la realizzazione della manifestazione (chi scrive voleva fare esattamente così per l’edizione annullata per covid ma non c’è stato verso nonostante le rimostranze: mi è stata riaccreditata la somma sul conto). Questo pettorale non è trasferibile perché destinato solo ed esclusivamente a chi ha ricevuto l’invito. Non ditemi che fate fatica a correre il rischio “regalare” 25 euro perché non ci credo (e, del resto, i privilegi devono comportare qualche diseconomia).
Dopodiché, qualche mese prima della data prevista per la gara, si aprono le iscrizioni strutturate sulla velocità della “risposta”. Un gruppo di 50 pettorali è venduto a 40 euro finiti i quali i successivi 50 sono disponibili a non meno di 50 euro. Gli importi non tengono conto della presenza di sponsor, senza i quali andrebbero ritoccati al rialzo. L’intento è evidente: premiare coloro che, in fin dei conti, sono come dei co-organizzatori (i primi 100), e limitare per tutti gli altri la partecipazione utilizzando la leva finanziaria. I pettorali dal 101 al 200 sono liberamente trasferibili ad altri o possono essere utilizzati per la gara dell’anno successivo ma senza alcuna possibilità di rimborso. A chi non sta bene, si iscrive ad un’altra gara, conseguendosi così il risultatoefficace: ridurre la partecipazione e far quadrare l’aspetto finanziario. Si tratta di una politica “drastica” ma necessaria poiché solo sui grandi numeri (e grandi entrate) si possono perdere risorse per costi di “segreteria” del tutto non necessari in un contesto “amatoriale”.
Sulla gara non c’è nulla da dire, salvo quanto segue.
Sarebbe utile un bagno chimico in più destinato al gentil sesso, per motivazioni facilmente intuibili.
Il percorso è faticoso, per nulla “piatto”, con un caldo soffocante ma accompagnato da un ristoro “permanente” sul quale sfido a lamentarsi (tra anguria, ghiaccioli di vario gusto, frutta, dolci, integratori, CocaCola, che altro pretendere?).
Qualcuno si è lamentato – durante la Via Crucis – dell’assenza di uno schermo sul quale poter vedere, ad ogni passaggio, il numero dei giri effettuati. L’ambizione, come si sa, è quella di percorrere almeno la distanza di maratona (che viene riconosciuta), cosa non facilissima perché ad un certo punto, ammesso che il “Garmin” non sbarelli (e vi assicuro che succede), non è chiaro quanta strada abbiate fatto realmente. Vi offro la soluzione per la quale mi sono stupito nel non averci pensato prima. Invece di avviare l’orologio allo start (che poi corrisponde ai 195 metri da “aggiungere” a 42 giri) è sufficiente farlo sul tappeto che segna il “giro” sicché, avendo archiviato i 195 metri citati, ad ogni passaggio sul tappeto potete conoscere esattamente il numero dei giri che, poi, in queste gare, è l’unica cosa che conta.
Dato che si parlava di affetto, tolte tutte le persone care incrociate in queste lunghe 6 ore (iniziate alle 23 e non alla mezzanotte, come per le precedenti edizioni, probabilmente per “restituire” la Villa alla cittadinanza, facendo però perdere la bellezza della conclusione con il sorgere del sole che è avvenuto alle 5.45), più di un abbraccio lo merita Peppe Minici ed i “Bradipi” tutti. Sarà l’ospitalità calabra ma al loro gazebo, con un sorriso (anche se non conosceste davvero Peppe), vi offrono un panino ed una birra bella fresca (e ti fanno scegliere anche la marca!). Il modo giusto di essere “amatoriali”, esattamente come si diceva di Gianluca e degli altri facenti parte dell’organizzazione. Lo spirito di altri tempi.
Ecco, questo, secondo me, è stato il punto dolente. Poche squadre hanno fatto sentire la loro presenza e la loro “vicinanza” in quello che è – chiaramente – un happening, una stravagante “riunione” per correre di notte, che merita il sostegno senza che debba esserci, per forza, un rapporto di dare-avere. Sono evidentemente un romantico – finanche sprovveduto – ma abbiamo tutto il resto del tempo per farci (e fare ad altri) i conti in tasca e, ogni tanto, possiamo dimostrare di essere davvero migliori e che la “sportività” di cui cianciamo, ad ogni piésospinto, non è un concetto di mere parole.